"Un corpo a corpo con il dolore"
Paolo Milone, L’arte di legare le persone, Einaudi 2021
Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori, 2020
Pubblicati a un anno di distanza l’uno dall’altro, i romanzi di Paolo Milone e Daniele Mencarelli rappresentano due voci di un dialogo difficile, spesso interrotto e a tratti del tutto impossibile: quello tra uno psichiatra e un paziente psichiatrico.
Definirli romanzi è peraltro improprio. Si tratta piuttosto di due tentativi di circoscrivere con le parole e dunque di comunicare al lettore la verità, aspra e contraddittoria, di un’esperienza reale degli autori.
Professionale e protratta quella di Paolo Milone, in reparto di psichiatria di urgenza di Genova. Personale e circoscritta quella di Daniele Mencarelli, che racconta i sette giorni del proprio ricovero nel reparto di psichiatria nella zona dei Castelli romani in seguito a un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) nell’afosa estate dei suoi vent’anni.
Le parole, peraltro, riconoscono l’uno e l’altro autore, mostrano tutti i loro limiti rispetto al tema della sofferenza psichica. Milone ne seleziona poche, scarne, organizzate in frammenti rapidi: ci vorrebbero infatti “termini folletto che afferrino le realtà che non esistono, termini caleidoscopici che contengono realtà mutevoli, termini forchetta che inforchino realtà infinitesimali, termini ambigui che ognuno interpreti come vuole”.
Ma “psichiatria è urla e pianto muto”, per tutte le persone coinvolte (pazienti, medici, infermieri, familiari). E allora Milone, per farsi capire meglio, spezza le parole, interrompe i discorsi, o resta addirittura zitto, cedendo la narrazione a veloci scorci di Genova: il mare che non si nasconde, i vicoli stretti ingombri dei fianchi larghi delle puttane, il tremore dell’aria calda della città d’agosto.
Mencarelli invece ricorre al dialetto per rendere i tentativi impacciati e dolorosi di esprimere l’inesprimibile, che in fin dei conti accomunano le persone più semplici a chi tenta di farsi scudo della propria cultura e intelligenza, ma è altrettanto inerme di fronte al dolore.
Ma allo stesso tempo individua proprio nella parola, nella scrittura, uno strumento potente di guarigione, “l’unico mezzo che può racconta’ quello che m’esplode dentro”.
La poesia, che secondo Milone “non frequenta la psichiatria, si ferma sulla soglia”, nell’esperienza del ricovero di Mencarelli è l’opportunità che, lasciata cadere dalla disattenzione e dalla stanchezza dei medici, contribuisce a realizzare una condivisione profonda in un gruppo di uomini che, malgrado tutte le differenza visibili e invisibili tra loro, si sono “trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta” in una stanza a sei letti: “Uomini nudi, abbracciati alla vita, schiacciati da un male ricevuto in dono”.
Come si cura la sofferenza psichica? Entrambi i libri sono percorsi, in modo abbastanza esplicito da un dibattito che diventa a tratti aperta polemica.
Provocatorio fin nel titolo, Paolo Milone rifiuta con decisione la narrazione rassicurante di una psichiatria semplicemente redenta dalla rivoluzione basagliana.
“Qui si bonifica il presente mettendo il male nel passato. Per questo io voglio parlare del legare le persone”. E ancora: “L’idea che si possa non contenere mai è la pretesa che la ragione e il cuore possano comprendere e placare tutto”.
Sono affermazioni forti, che non mancano di suscitare emozioni profonde e anche reazioni intense e viscerali, che si sono espresse in alcune recensioni al libro.
Non traspare però, a una lettura attenta, alcuna tentazione di controriforma istituzionalizzante. Piuttosto la dolorosa consapevolezza che tanto ancora resta da fare, nella sostanza, per superare realmente la stigmatizzazione.
In primo luogo, guardarsi da idealismi superficiali e semplicistici che finiscono per non vedere quello che non si riesce a capire e a gestire, escludendo dalla mente – e dall’accesso ai servizi – quelle stesse persone che un tempo si escludevano dalla società con le mura dei manicomi. Il vero discrimine tra una buona e una cattiva psichiatria, afferma Milone, è non abbandonare il paziente. Anche se il più delle volte, a voler essere del tutto onesti, si procede per tentativi e per approssimazioni. Mencarelli, nelle sue impietose descrizioni di psichiatri che oscillano tra certezze ostentate (“Basta trovare il farmaco giusto”) e apparente incapacità di provare emozioni, in una sorta di sfinito disamore di se stessi e di tutto il genere umano, finisce per concordare con Milone: il bravo medico è chi è disposto a giocarsi tutto pur di capire il dolore degli altri, chi rimane accanto al paziente come sa e come può. E ciascuno può essere il migliore e peggiore psichiatra, anche più volte nella stessa giornata.
Esiste, la follia? Come si può definire? Negarne l’esistenza dicendo che siamo tutti uguali, afferma lapidario Milone, è annullare la diversità dell’altro. Chi l’ha provata e l’ha toccata, sa che esiste e sa anche che è una questione di vita o di morte, che non richiede colpevoli o interpretazioni, ma una corda gettata nel baratro per tirarsene fuori.
Chiede salvezza, fa eco Mencarelli, per se stessi e per i propri cari, pur nella consapevolezza che neppure cosa sia questa salvezza si è in grado di definire, se non per negazione. Non è una questione di felicità, non è (o almeno non è soltanto) questione di chimica, non si riduce al corretto funzionamento di un ingranaggio di carne. “Forse questa cosa che chiamo salvezza”, aggiunge Mencarelli, “non è altro che uno dei tanti nomi della malattia, forse non esiste e il mio desiderio è solo un sintomo da curare”.
L’unica cosa che pare indiscutibile è la profonda connessione della follia con il dolore: un dolore che non si riesce a conoscere e addomesticare, che comporta una fatica sproporzionata, che non trova alcun tipo di rassicurazione. “Rassicurante sarebbe la fine del mondo, se solo fosse vera” scrive Milone “rassicurante sarebbe la morte, se solo fosse vera, e poter risapere, nel morire, chi sono io che muoio”.
La sofferenza psichica naturalmente non è spiegata da ciò che la innesca, eventi spesso futili e senza nulla di rimarchevole, che Tucidide avrebbe definito pretesti (pròfasis) e non cause (aitìa): una frase detta o non detta, un commento infelice, un incontro casuale, un amore finito male.
Individuare responsabili, “colpevoli”, a questo livello (i genitori, il datore di lavoro, i compagni di scuola, gli haters online…), non contribuisce alla ricerca angosciosa di senso che percorre tutte le vicende che incrociano le due narrazioni.
La causa remota invece ha più profondamente a che fare con la natura umana e per questo, sembrano dire entrambi gli autori, sfugge almeno in parte al campo della scienza in senso stretto.
“Una cultura che voglia parlare dell’uomo ma che manchi di una parte psichiatrica è monca e cieca” afferma con sicurezza Milone.
Perché niente è più profondamente umano dello smarrimento davanti alla fragilità, alla precarietà della vita stessa, all’impossibilità di trovare un significato al dolore (perché non tutto il dolore è utile: il più delle volte, anzi, è inutile e distruttivo).
“Se uno è nato gatto, è forse colpa dei genitori che sono gatti? Essere gatti è un fatto tragico, come tante altre faccende della vita” chiosa sempre lapidario e provocante lo psichiatra genovese.
In fin dei conti, insiste Milone, ogni percorso di cura è un incontro tra due follie: c’è solo da sperare che quella del medico sia più umana e saggia dell’altra. Ognuno vive nella nebbia più o meno fitta.
La vera follia, chiosa Mencarelli, è non cedere mai, non inginocchiarsi mai. In quanto uomini, travolti, chi più chi meno, dalla stessa tempesta, possiamo solo cercare di non abbandonarci l’uno con l’altro. Ugualmente impotenti davanti alla morte e alla disperazione, possiamo comunque cercare di “venirci sempre a riprendere”, come fa la madre con il figlio malato, di restare accanto per rassicurare, anche con la sola presenza fisica, come il padre fa con il figlio impaurito.
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