Riflessioni sul bullismo etnico e razziale
Assimilazione e multiculturalismo nei sistemi educativi
“I nostri antenati, i Galli …” così cominciavano una volta i libri di storia francesi. Ed è facile immaginare quanto faticassero a riconoscersi in quella storia ed in quel mito nazionale gli scolari algerini o indocinesi, cittadini anch’essi, seppure d’oltremare. Questa frase è così rimasta celebre per la sua capacità di ridicolizzare i sistemi educativi d’impostazione marcatamente assimilazionista, fino a divenire una sorta di epitome dei limiti dell’assimilazione imposta. Eppure l’incipit di quei libri parla anche del tentativo di gestire la questione della diversità etnica e culturale, che si pone nelle scuole delle società sempre più multietniche, attraverso la promozione di un processo di unificazione per così dire simbolica.
Conta poco che gli antenati siano molteplici e diversi dai Galli, perché in ogni caso sono certamente più importanti la costruzione o il ritrovamento di una filiazione simbolica condivisibile, dunque tale da poter diventare comune. Ciò che vuole dire “fare comunità”.
È chiaro che la vuota ripetizione della promessa assimilazionista costituisce segno inequivocabile di una scuola indifferente alle diverse storie degli alunni presenti al suo interno. Ma insistere nella critica dell’assimilazionismo è oggi un esercizio troppo facile, perché la questione del “fare comunità” o del costruire consenso, nella scuola ed attraverso la scuola, resta tuttora aperta, in tutta la sua cogenza. Alla scuola si chiede di creare i presupposti per l’integrazione sociale, costruendo una comunanza che è anche valoriale e linguistica, cioè tale da costituire strumento d’inclusione, affinché nessuno resti indietro e nessuno si perda.
La necessità di articolare questa richiesta col rispetto – e nel rispetto – delle diversità culturali continua a rappresentare un problema quanto mai complesso, a cui non sono riusciti a fornire risposte esaurienti – o quanto meno commisurate alle attese – nemmeno gli approcci ispirati al multiculturalismo, che pure hanno conosciuto un’ampia affermazione, in molti paesi europei e non solo, sin dagli anni Ottanta del Novecento. Di fronte alla sfida lanciata dall’intercultura nella scuola ha recentemente segnato il passo, fino ad una severa revisione critica, persino il sistema svedese, contraddistinto da un multiculturalismo piuttosto avanzato.
Allargando la focale ad abbracciare il più ampio ambito sociale – tenendo presente che la scuola ne è parte, ne rivela come in uno specchio i tratti profondi e nel contempo contribuisce a costruirlo come tale – emerge con drammatica evidenza che le società multietniche, frutto maturo dei processi migratori, sono attraversate da tensioni e conflitti fortemente connessi con la questione della diversità tra gruppi, in ordine ai tratti somatici, all’appartenenza etnica, alla cultura o alla religione. Ed è noto che per primi i giovani, dunque le fasce più dinamiche della popolazione, rendono palesi questi conflitti e ne sono protagonisti. Si parlava in passato di “generazione del sacrificio” per indicare i nati nel paese d’immigrazione da genitori immigrati, che scontano le conseguenze negative dell’immigrazione, senza riuscire ad ottenerne i benefici[1].
Coloro che Ben Jellun, nel 1984, aveva già chiamato génération involontarie «destinata ad incassare i colpi. Questi giovani non sono immigrati nella società, lo sono nella vita … Essi sono lì senza averlo voluto, senza aver nella deciso e devono adattarsi alla situazione in cui i genitori sono logorati dal lavoro e dall’esilio, così come devono strappare i giorni a un avvenire indefinito, obbligati ad inventarselo invece che viverlo»[2]. Ma oggi appartengono alle terze ed alle quarte generazioni (come si osserva nei paesi di più antica tradizione immigratoria) i giovani che con le loro proteste – più o meno violente – fanno esplodere le contraddizioni delle democrazie occidentali e mostrano quanto siano insufficienti le garanzie di pari opportunità assicurate ai membri di tutti i gruppi compresenti.
Dal punto di vista delle effettive opportunità d’integrazione, l’assimilazione resta sempre imperfetta. Sul piano dell’istruzione, dell’occupazione, del reddito e della cultura il melting pot non ha veramente fuso le diverse componenti. La discriminazione ha solo cambiato volto ed è rimasta, così come i ghetti. Alla stregua di un miraggio o di una menzogna retorica, l’assimilazione non è stata un invito a partecipare ad un progetto bensì ha costituito una sorta di “scelta di trazione” rispetto a minoranze svalutate. Accettarla, data la persistenza delle disuguaglianze, non può che esitare in una pura e semplice perdita: la conferma di un destino, le cui conseguenze in termini di frustrazione e rabbia – il cocktail di emozioni che sembra animare i casseurs parigini e non solo, che da tempo hanno sconfinato dalle banlieue verso il centro delle metropoli – sono facilmente immaginabili.
George Borjas, nella sua analisi della dinamica sociale degli Stati Uniti d’America[3], ha riscontrato che è stimabile in non meno di tre generazioni il tempo necessario per il verificarsi di una reale integrazione degli immigrati, cioè per azzerare la condizione di svantaggio che caratterizza i new comers. Nei contesti che esplicitamente hanno voluto definirsi multiculturali, tra cui il Regno Unito, si sono parimenti verificati processi di etnicizzazione delle differenze, che hanno contribuito alla costruzione di una società segmentata, in cui lo svantaggio è associato a determinati gruppi etnici.
Questi richiami all’ambito più ampio in cui si colloca la questione dell’integrazione sociale servono a fare il punto su un fatto: nello specifico della scuola, il problema già di per sé complesso di come gestire la diversità etnica e culturale (cioè il problema di come coniugare l’inclusione e la costruzione del consenso intorno a valori condivisi con il riconoscimento delle diverse identità compresenti) diviene ancor più cogente laddove la scuola si confronta contemporaneamente – come di fatto accade in tutte le società multietniche dell’occidente democratico – con le conflittualità connesse alla diversità etnica e culturale, che attraversano l’intera società e di cui anche la scuola, come uno specchio, riflette l’immagine.
Fatto che peraltro non può destare meraviglia, come conferma – ad esempio – quanto scritto da un pedagogista negli anni Novanta del Novecento e citato di proposito per questa lontananza temporale: «L’estensione e la complessità della problematica interculturale si sono sempre più dichiaratamente manifestate a vari livelli, sottolineando gli stretti legami tra problemi scolastici e politici, culturali e assistenziali, pubblici e privati»[4].
Anche qui il rischio di fallimento si nasconde in una sorta di circolo vizioso: è auspicabile che tutti accedano al sistema educativo, in modo che nessuno si perda e nessuno resti indietro, perché esso rappresenta il miglior tramite per la formazione, l’inclusione e l’acquisizione degli strumenti di promozione sociale ma, ad un tempo, nel sistema educativo si riflettono quelle stesse pratiche sociali che producono – o confermano – segmentazione ed esclusione.
L’effetto che si potrebbe definire “di sbilanciamento selettivo” riscontrabile all’interno della scuola – e che la scuola dunque produce – tende a prefigurare destini in molti casi già segnati, perché limita nei fatti le possibilità sostanziali di ascesa sociale, operando alla stregua di un tetto di cristallo. Come appena ricordato, tutto ciò è da tempo oggetto di studio e d’attenzione da parte degli osservatori ed all’interno del mondo stesso della scuola, evidenziando che l’appartenenza etnica – in particolare per alcuni gruppi – costituisce una variabile significativa nel configurare esperienze di frustrazione e marginalizzazione.
Fatto che rischia, anche in Italia – in cui il fenomeno immigratorio è relativamente giovane[5] – di produrre sacche giovanili marginali o devianti ed etnicamente connotate: probabile segno premonitore dello sviluppo di quelle violenze di cui s’è fatto prima cenno, citando i casseurs parigini e non solo.
Bullismo e dispersione scolastica: il progetto Contro la dispersione scolastica
È stato invece meno studiato, finora, il ruolo che il bullismo può svolgere nel contribuire allo sviluppo di quanto sopra descritto. Non vi sono cioè molte analisi in merito al quanto – ed al come – una patologia tipicamente scolastica, qual è il bullismo[6], contribuisca a costruire destini a forte rischio di marginalità ed etnicamente connotati. Su quest’aspetto si è per l’appunto concentrato il Progetto CoDS (contro la dispersione scolastica) perché nessuno si perda[7], che ha voluto studiare le correlazioni tra il coinvolgimento nel bullismo etnico e l’esito dei percorsi di integrazione scolastica e sociale degli alunni stranieri o di origine immigrata, anche per capire meglio in che misura la scuola ha sensibilità nel cogliere queste correlazioni ed attribuirgli significato.
Il bullismo è da tempo oggetto d’attenzione, insieme alle evoluzioni cui esso va incontro[8]. Così pure è nota la diffusione del bullismo etnico[9]. Ma l’originalità di CoDS va rinvenuta nell’aver effettuato un affondo conoscitivo in merito alla qualità delle interazioni all’interno del gruppo di pari, in particolare quando l’interazione prende la coloritura della violenza, esercitata o subita, per ragioni riconducibili alla variabile etnica. Dunque un’esperienza di violenza etnicamente connotata, che si produce all’interno della scuola e che espone alcuni ragazzi ad atti di bullismo o, nell’altra direzione, innesca in alcuni ragazzi una reazione di rabbia e ribellione, rendendoli non già vittime né astanti ma protagonisti di atti di bullismo, non di rado precursori della caduta in traiettorie marginali.
Perché molte volte quest’esperienza di violenza etnicamente connotata finisce per rafforzare il rischio di disaffezione nei confronti della scuola o il rischio di sconfitta scolastica. Le violenze e le prevaricazioni nell’ambiente scolastico scorrono spesso striscianti ed il più delle volte restano misconosciute da insegnanti e famiglie, come del resto appare acquisito nel corso degli anni dalla letteratura (sul bullismo e non solo).
Quando alcuni casi esplodono, sembrano cogliere di sorpresa, pur se rappresentano solo la punta di un iceberg. Il bullismo etnico, che si manifesta nella scuola, rappresenta una proxy delle tensioni legate all’etnicità, che attraversano il tessuto sociale. Queste tensioni esercitano un impatto sul destino dei ragazzi e sull’evoluzione della crisi adolescenziale che essi son chiamati a risolvere, anche per mezzo del rapporto col gruppo dei pari.
Come dire che alcuni tra i fattori in gioco nell’evoluzione della crisi adolescenziale – nelle varie direzioni possibili – sono correlati al grado di “etnicizzazione” dei rapporti che si costruiscono in ambito scolastico, all’interno del gruppo dei pari: un’etnicizzazione che può assumere forme violente ed espulsive, di cui il bullismo etnico è un chiaro segno.
Da questo punto di vista, l’ambiente scolastico, mentre rappresenta un’occasione d’integrazione, si configura come luogo privilegiato per la sperimentazione o il rafforzamento delle prime forme di esclusione. Certamente, ciò non vale solo per il rapporto tra scuola e ragazzi immigrati, portatori di elementi di diversità etnica. Un significato analogo del percorso scolastico, sempre in bilico tra chance per l’integrazione e rischio di esclusione, si può facilmente riscontrare nel caso dei ragazzi non immigrati – autoctoni, omoetnici ed isoculturali – in condizioni o a rischio di più o meno grave marginalità, come risulta, ad esempio, da molte indagini svolte nelle regioni del Mezzogiorno[10].
Ciò che aggiunge elementi di complessità è il ruolo dell’identità etnica, che assume la funzione di organizzatore sociale, del bullismo a scuola e di tante altre dinamiche e fenomenologie, ben oltre la sola dimensione scolastica. Ecco perché la gestione della diversità etnica nella scuola solleva questioni di non facile soluzione e perché è difficile attuare interventi di prevenzione e contrasto del bullismo etnico.
L’insuccesso o lo svantaggio scolastico che possono derivare dal coinvolgimento nel bullismo etnico – e di cui tale coinvolgimento costituisce una spia – segnano l’inizio di una spirale negativa fatta di svantaggi cumulativi: un circolo vizioso alimentato da difficoltà scolastiche e marginalità, che a loro volta sono gli antecedenti delle limitazioni nell’accesso alle opportunità di inserimento occupazionale, all’alloggio, alla qualità dei servizi ed alle risorse.
Il bullismo etnico assume immediatamente una dimensione sovraindividuale, poiché innesca dinamiche che travalicano il singolo e rimandano al gruppo di appartenenza ed alle dinamiche di gruppo e tra gruppi. Si tratta di un indicatore precoce, da considerare con attenzione, perché esso segnala il possibile esordio di un destino che travalica la vicenda del singolo ragazzo e stabilisce invece l’annullamento di quel singolo, schiacciandolo sull’appartenenza al gruppo etnico e ricacciandolo in esso.
Il ragazzo coinvolto in fenomeni di bullismo etnico vede immediatamente sminuita la sua identità di individuo, nella misura in cui viene riconosciuto solo in base a quell’identità etnica che ha scatenato il bullismo. Nel contempo, quest’esasperazione dell’etnicità, che assume connotazioni violente e conflittuali, favorisce meccanismi aggregativi [11], “fa gruppo”, di attacco o di difesa, fino a dar luogo alla formazione delle cosiddette “gang”. Le altre fenomenologie del bullismo, che si appuntano ad esempio sulla diversità relativa alla scelta sessuale o alla disabilità, non sono in grado di innescare simili dinamiche sovra individuali e così forti contrapposizioni tra gruppi.
Su tutto ciò CoDS ha inteso richiamare l’attenzione, sottolineando la necessità di non sottovalutare questi fenomeni e di continuare a lavorare per prevenirli e contrastarli, attivando le sinergie e gli interventi di rete possibili. Per tentare di far sì che nessuno si perda bisogna tenere aperto il cantiere e cercare gli strumenti più adeguati, sapendo che la natura stessa del fenomeno richiede risposte complesse ed articolate.
Diffusione e percezione del bullismo etnico
Nella scuola secondaria di primo grado, l’ambiente scolastico tende ad attutire la percezione degli atti di bullismo etnico e per molti versi li minimizza. Non solo gli operatori scolastici sono portati a smorzare ed ammorbidire: dal canto loro, gli stessi studenti stranieri o di origine immigrata contribuiscono a far sì che la percezione del fenomeno – da parte degli insegnanti – resti contenuta, favorendone la minimizzazione.
Ciò perché questi ragazzi, in moltissimi casi, mostrano una maggior propensione ad evitare di orientarsi verso scelte apertamente conflittuali, che per loro natura potrebbero acuire il senso di mancata accettazione, col rischio di rivelarsi marginalizzanti.
Ed ecco che i ragazzi portatori di elementi di diversità dovuti all’appartenenza o all’origine – per l’appunto in ragione di questi elementi di diversità – divengono più facilmente (rispetto ad altri ragazzi) vittime di velate aggressioni, derisioni o piccole violenze, che però non appaiono immediatamente ascrivibili – nello sguardo degli insegnanti – a vere e proprie forme di bullismo, nonostante abbiano in sé, con evidenza, i tratti tipici del bullismo (l’intenzionalità da parte del bullo nel compiere prepotenze dirette o indirette, verbali ed emotive o fisiche, la persistenza di tale condotta e la sua natura sociale, poiché le prevaricazioni accadono generalmente in presenza degli altri componenti del gruppo classe, che svolgono il ruolo di astanti e, in alcuni casi, incoraggiano il comportamento del bullo o lo approvano tacitamente).
Ascoltando il vertice di osservazione degli operatori della scuola si ha così l’impressione che vi sia una sorta di difficoltà ad intercettare il bullismo etnico, o quanto meno ad identificarlo come tale. Nel contempo – e sempre in base all’ascolto del punto di vista degli insegnanti – sembra delinearsi un’altra opacità: quella che riguarda il riconoscimento del ragazzo immigrato nelle vesti di aggressore, ovvero come autore di atti di bullismo. Anche qui c’è una tendenza ad attutire la percezione ed a minimizzare. Infatti, del ragazzo etnicamente diverso è più facile cogliere la dimensione di vittima, perché lo si considera più esposto alla prevaricazione all’interno del gruppo dei pari, pur se questa aggressione è raramente descritta – ovvero percepita – dall’insegnante come forma, ancorché di tono minore, di racial harassment.
È invece del tutto diverso quel che vedono quanti lavorano con minori per varie ragioni ed in vari modi già espulsi dalla scuola (CoDS ha effettuato un affondo conoscitivo integrando l’ascolto degli insegnanti con l’ascolto degli operatori che lavorano con ragazzi drop-out, rientrati nei percorsi della formazione professionale). Essi incontrano in genere giovani con qualche anno di età in più e già segnati da carriere scolastiche fallimentari.
A differenza dei ragazzi che frequentano la scuola secondaria di primo grado e che tendono ad evitare di orientarsi verso scelte apertamente conflittuali (contribuendo a minimizzare gli episodi di bullismo di cui sono vittime) questi giovani elaborano una risposta di segno opposto, sebbene anch’essa disfunzionale, rendendosi protagonisti di atti di bullismo etnico. Si tratta di una risposta fatta di comportamenti oppositivi, talvolta marcatamente violenti, che parlano del tentativo di ribaltare un rapporto di forza. Il ragazzo svantaggiato o a rischio di svantaggio perché etnicamente diverso sembra voler mettere in atto un tentativo di capovolgimento della propria condizione: si fa aggressore ed utilizza i tratti più riconoscibili della propria identità alla stregua di un “vessillo”, che assume e svolge la funzione di dare dignità, costruire gruppo, fornire strumenti di interpretazione della realtà.
Il confronto tra quanto si osserva negli adolescenti che frequentano la scuola secondaria di primo grado e quanto si osserva tra ragazzi di cui parlano gli operatori della formazione professionale consente di traguardare al coinvolgimento dei minori stranieri o di origine immigrata nelle fenomenologie del bullismo etnico, in qualità di vittime o autori di violenze e sopraffazioni, come segno predittivo di un destino che talvolta si va configurando ed il cui profilo si riesce a cogliere solo attraverso l’analisi delle traiettorie di vita. In un momento iniziale, collocabile al tempo della scuola secondaria di primo grado, il ragazzo etnicamente connotato può risultare più esposto a fenomeni di vittimizzazione (tra cui gli atti di bullismo velati o misconosciuti).
Tali fenomeni vengono spesso a rappresentare una sorta di sintomi prodromici, che preannunciano frammentazioni o discontinuità del percorso scolastico. A volte, l’esito di tutto ciò si coglie pienamente nei momenti successivi ed in maniera eclatante quando il percorso scolastico si è interrotto. È in questi momenti che la risposta disfunzionale al fallimento tende più facilmente a tradursi nel bullismo agito, o nell’innesco di condotte devianti, venendo a caratterizzare lo stile di vita. Come già segnalato: alcune dinamiche divengono più chiare alla luce del più ampio percorso che il minore compie, nel transitare attraverso la scuola o la formazione professionale e nell’attraversare i vari momenti dell’adolescenza. Dinamiche che invece possono più facilmente sfuggire quando se ne osserva solo un frammento o un momento contingente, come accade nella scuola secondaria di primo grado.
Il bullismo etnico: cosa può fare la scuola?
Certamente la scuola ha il compito di gestire la convivenza ed anche di fronte a condotte prevaricatorie è portata ad evitare letture patologizzanti delle relazioni all’interno del gruppo dei pari. Ciò spiazzerebbe la scuola stessa dalla sua vocazione all’intervento educativo – e non già a quello marcatamente terapeutico – e rischierebbe di incrementare i livelli di violenza piuttosto che attutirli. Inoltre, la stigmatizzazione in termini di patologia della condotta del bullo o della vittima potrebbe alimentare una spinta espulsiva invece che inclusiva nei loro confronti.
Le difficoltà con cui la scuola si scontra sono altrettanto evidenti nei casi in cui vi è invece maggior consapevolezza del significato predittivo che il coinvolgimento in fenomeni di bullismo etnico assume per il futuro di un ragazzo. Anche laddove la capacità per così dire diagnostica appare elevata, la scuola stessa si scopre a corto di mezzi o con le armi spuntate, almeno su due versanti. Il primo versante riguarda la carenza di strumenti e prassi codificate per aiutare i ragazzi fatti oggetto di bullismo etnico a sentirsi protetti e sufficientemente accolti – ovvero accettati – nell’ambiente scolastico.
Riguarda altresì la disponibilità di figure professionali in grado di garantire adeguato sostegno, soprattutto per ciò che concerne la corretta elaborazione dei sentimenti che la vittimizzazione tende a produrre. Il secondo versante riguarda le possibilità di dar luogo ad interventi efficaci, al fine di dissuadere l’autore di atti di bullismo etnico dal perseverare nella sua condotta.
Possibilità davvero esigue, al di là dei provvedimenti di stampo sanzionatorio, peraltro resi obsoleti a motivo delle ovvie aporìe e difficoltà che discendono dall’applicazione di sanzioni in un ambito come quello scolastico, da tempo caratterizzato per definizione dalla funzione di accoglienza e di costruzione del consenso su valori comuni. Ogni sanzione di fatto applicabile finisce per configurare – anche qui – una spinta espulsiva, come nel paradigma dell’allontanamento da scuola, ancorché oggi trasformato nell’imposizione al “reo” di essere sì presente a scuola ma per dedicarsi anche all’esecuzione di lavori di comunità, sull’esempio dei community services di cui si parla nell’ambito della restorative justice.
Non v’è dubbio che le possibili strategie di intervento sul bullismo, per risultare efficaci, dovrebbero fondarsi nel trattenimento a scuola di coloro che nel bullismo sono coinvolti. È necessario offrire loro “più scuola”, non già “meno scuola”, per costruire spazi pedagogici in cui la relazione educativa possa farsi più idonea alla gestione del bullo, della vittima e nondimeno dei gregari e degli astanti. L’altro pilastro di tali strategie è il lavoro di rete. Sebbene la scuola abbia scarsa consuetudine e risorse limitate per muoversi in questa direzione, CoDS ha potuto contare sul fatto che la città di Torino sperimenta già forme integrate di gestione dei problemi.
Le modalità innovative dell’intervento del progetto CoDS
L’aver condiviso approcci e strumenti con una rete ampia di agenzie e di servizi che, a vario titolo, operano per l’inclusione scolastica e sociale dei cittadini stranieri (scuole di vario ordine e grado, la Divisione dei Servizi Educativi del Comune di Torino, l’Ufficio Scolastico Provinciale, il Nucleo di Prossimità, i servizi sociali del Comune e della Giustizia Minorile, il Tribunale per i Minorenni) ha rappresentato il punto di forza di CoDS, contribuendo ad incrementare la capacità complessiva del sistema di intervenire con efficacia, soprattutto al fine di evitare l’espulsione dalla scuola dei ragazzi a rischio, ovvero già autori di reato ed ancora in obbligo scolastico.
Posto quest’elemento di fondo, che ha dato al Progetto la possibilità di rendere funzionali al raggiungimento degli obiettivi individuati gli strumenti e gli approcci adottati, è opportuno segnalare alcuni tratti innovativi, apparsi molto efficaci nel corso della sperimentazione condotta:
– l’esperienza di alternanza tra scuola e formazione professionale ha permesso un ripensamento ed un allargamento dello spazio educativo che sono apparsi estremamente utili, talvolta anche a rafforzare la motivazione dei ragazzi verso la prosecuzione della carriera scolastica;
– la compresenza di bulli e vittime nelle classi del progetto, ancorché potesse generare perplessità in un primo momento, si è rilevata quale fattore significativo di promozione del cambiamento. Infatti, dato che spesso (come è il caso dei ragazzi presi in carico dal progetto) i ruoli di bullo e di vittima sono legati in modo ambivalente e talvolta presenti nello stesso individuo, la contiguità dell’esperienza psicologica del bullo e della vittima ha aperto spazi di pensiero importanti sulle condotte e ha offerto opportunità di rispecchiamento, che certo hanno aiutato a migliorare la qualità dell’interazione nel gruppo dei pari (bulli/vittime);
– l’aver reso la famiglia parte attiva del processo ha promosso l’alleanza educativa tra le due agenzie e ha permesso al progetto di porsi quale luogo di compensazione dei conflitti familiari che sovente caratterizzano la relazione dei minori stranieri con le loro famiglie, soprattutto nel periodo dell’adolescenza;
– l’aver fornito a questi ragazzi un “vessillo etnico” trasversale, la divisa da cuoco, che ha permesso loro di riconoscersi come membri di uno stesso gruppo, di considerarsi capaci di lavorare per il raggiungimento di obiettivi, di sentirsi parte di un percorso che non lascia nessuno più indietro degli altri o al margine.
Fatto rilevante è inoltre l’aver lavorato sullo snodo tra il primo ed il secondo grado della scuola secondaria, che costituisce una fase di transizione cruciale del percorso scolastico per due ordini di ragioni. In primo luogo perché il fenomeno della dispersione scolastica trova la sua manifestazione elettiva per l’appunto nella fase di transizione tra la scuola secondaria di primo grado e la scuola secondaria di secondo grado[12], come ben noto e come peraltro confermato anche da quanto emerso nell’ambito relativamente ristretto del Progetto CoDS. Del resto è facilmente comprensibile che il venir meno della dimensione dell’obbligatorietà possa costituire, per il ragazzo così come per la famiglia, un fattore di disorientamento rispetto ai passi successivi da compiere e rispetto alla direzione in cui orientarsi.
Inoltre, il passaggio dal primo al secondo grado della scuola secondaria coincide a grandi linee col momento in cui gli adolescenti si preparano per molti versi ad assumere un ruolo sociale – ovvero a precisarlo – all’interno della comunità più ampia. In tal senso, questa fase (l’approssimarsi del passaggio alla secondaria di secondo grado) diviene occasione per l’acuirsi di contraddizioni e tensioni, che si pongono a un crocevia tra la storia individuale (l’evoluzione psicologica del ragazzo) ed il sistema delle relazioni sociali[13].
Note
[1] I migranti affrontano le difficoltà dell’impresa migratoria ed accettano di vivere in condizioni di ineguaglianza e subalternità, in previsione di un futuro migliore: in ciò sono “eroi”, o come tali possono considerare sé stessi, perché hanno comunque realizzato qualcosa. I loro figli restano invece “sospesi” tra il modello dei padri – di cui vorrebbero per molti versi liberarsi e coi quali sono spesso in conflitto – ed il modello della società ospite a cui non hanno pieno accesso. Solo nelle generazioni successive si verifica – o dovrebbe verificarsi – la piena integrazione.
[2] «Elle est destinée a encaisser les blessures. Ces jeunes ne sont pas immigrés dans la société, ils le sont dans la vie … Ils sont la sans l’avoir voulu, sans avoir rien décidé et doivent s’adapter au paysage où les parents sont usés par le travail et l’exil, comme ils doivent arracher les jours à un avenir non dessiné et qu’ils sont obligés d’inventer à defaut de le vivre» (Hospitalité française, Ed. Le Seuil, Paris, 1984, p.98).
[3] Heaven’s door. The migration policy and the american economy, Princeton 1999, pp. 127-145.
[4] Luigi Santelli Beccegato (a cura di), Interculturalità e scienze dell’educazione. Contributi per una proposta di educazione interculturale, Adriatica Editrice, Bari 1995, p. 9.
[5] Se sin da subito si è avuto un quadro preciso dei successi e degli insuccessi degli alunni stranieri o di origine immigrata nella scuola primaria e secondaria, solo di recente si dà una panoramica significativa dell’intero percorso scolastico di questi giovani, fino al grado di istruzione universitaria.
[6] Il bullismo si genera e si estrinseca nella scuola, all’interno del gruppo dei pari.
[7] Promosso dal Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà Civili e l’Immigrazione, attraverso il Fondo Europeo per l’Integrazione di cittadini di Paesi terzi 2007-2013, il Progetto CoDS è stato realizzato a Torino, tra il settembre 2012 e il giugno 2013, da un partenariato composto dalla Fondazione Piazza dei Mestieri in qualità di capofila, dall’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali e dal Comune di Torino. CoDS ha comportato un’attività di ricerca ed un’attività di implementazione di percorsi di formazione orientativa laboratoriale, in cui sono stati inseriti circa trenta minori, tra autori e vittime di bullismo.
[8] La fenomenologia del bullismo, che – com’è noto – si esprime sotto forma di prepotenze di diverso genere e natura, costituisce una realtà diffusa, spesso negata, latente o sottovalutata, nascosta nelle pieghe della routine di tutte le istituzioni scolastiche, di ogni ordine e grado.
Queste azioni di violenza, esercitata o subita, che vedono il coinvolgimento di un numero crescente di preadolescenti ed adolescenti, fanno inoltre registrare nella società contemporanea una continua evoluzione. Tendono infatti ad esprimersi in relazione all’intervento di nuove variabili, quali la diversità etnica e culturale, la diversità negli orientamenti o nelle scelte sessuali, la diversità legata alla disabilità somatica o psichica. Come dire che queste ed altre dimensioni di diversità sono divenute terreno fertile per il germinare di fenomeni di violenza e devianza giovanile, che non appaiono più associati – come accadeva in un passato non molto lontano – alla sola condizione di svantaggio sociale ma con essa si intrecciano, producendo configurazioni variegate e complesse.
[9] Ad esempio, una recente indagine multicentrica condotta dal British Council in nove paesi europei ha lanciato un segnale d’allarme segnalando che i più colpiti dagli atti di bullismo sono per l’appunto i ragazzi immigrati, per i quali si registra il 30% in più di probabilità (rispetto ai coetanei non immigrati) di subire atti di violenza ed il 50% in più di probabilità di essere oggetto di scherno. Dall’indagine, condotta attraverso interviste, è emerso inoltre che le offese e le prepotenze nei confronti dei compagni vengono pronunciate innanzitutto appuntandosi su differenze nell’aspetto fisico (altezza, peso, segni particolari). Seguono la disabilità, l’abbigliamento, la lingua, l’origine etnica e la differenza di accento, le differenze economiche e la religione.
[10] Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, La dispersione scolastica in Campania: dai fattori di rischio ai risultati del progetto Di.Sco.Bull ad un anno di attività, pubblicazione prodotta nell’ambito del Progetto “Abbandono scolastico e bullismo: quali rischi tra i giovani?” promosso dal Ministero dell’Interno e finanziato nell’ambito del PON Sicurezza per lo Sviluppo, a valere sul FESR – Obiettivo Convergenza 2007-2013 – Obiettivo Operativo 2.6 “Contenere gli effetti delle manifestazioni di devianza” per prevenire e contrastare i fenomeni della dispersione scolastica e bullismo nelle scuole del territorio.
[11] Significativo in proposito un caso giunto agli onori della cronaca nel 2008 a Monte Urano, nella provincia marchigiana di Fermo, in relazione alle difficoltà di integrazione tra etnie e culture compresenti in un tessuto sociale ed economico particolare come quello calzaturiero. All’interno della scuola secondaria di primo grado venne alla luce che quattro studenti cinesi avevano confezionato bastoni metallici. Da indagini più accurate si appurò che queste armi improprie sarebbero loro servite per difendersi dalle ripetute aggressioni subite in precedenza da un gruppo di coetanei, composto da alunni sia italiani sia di origine maghrebina, che non condividevano le abitudini e il modo di fare degli alunni cinesi.
[12] Come riscontrato, tra gli altri, dalle seguenti indagini: Il disagio degli adolescenti: valutare gli interventi, valutare le politiche, ricerca svolta nel 2005 dall’IPRS, per conto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Il Disagio degli adolescenti -Ricerca azione sul fenomeno dell’abbandono scolastico e formativo relativo ai giovani di età compresa tra i 15 e i 17 anni, Progetto promosso dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e realizzato da Ernst and Young Financial Business Advisors SpA, Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali ed ECIPA-CNA, nel 2004.
[13] Sin dalle celebri e pioneristiche osservazioni di Erik Erikson condotte negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, è ben noto che per i ragazzi immigrati (di prima o seconda generazione) questo processo si accompagna – in maniera peculiare rispetto ai coetanei “non immigrati” – ad un altro processo, che riguarda la negoziazione tra “appartenenze multiple” e che non trova mai facile componimento (nessun processo adolescenziale trova mai facile componimento ma si vuole qui sottolineare che per il ragazzo immigrato sussistono ulteriori elementi di complessità, meritevoli della maggiore attenzione possibile, pur se essi peraltro vengono non di rado a costituire elementi di ricchezza).