Il senso ultimo del percorso di accoglienza vissuto dai titolari di protezione internazionale, che si snoda in un arco temporale di durata indeterminata, passando dalle strutture di primo arrivo sino ai centri di seconda accoglienza, potrebbe essere riassunto nella necessità di accompagnare e sostenere l’identificazione, la rielaborazione, la messa a punto di un progetto migratorio realistico e che possa trasformarsi in un progetto di vita.
E’ un progetto che le persone sono sollecitate a ridefinire più e più volte, nei vari momenti cruciali che vanno dall’ingresso nel sistema di accoglienza, al momento dell’ottenimento dello status di rifugiato o della protezione umanitaria, fino al momento in cui il percorso nei centri Sprar volge al termine ed è necessario riprendere una vita autonoma e indipendente, diversa da quella condotta nel Paese da cui si è fuggiti, fatta di nuovi equilibri psicologici e emotivi, di nuove relazioni sociali, di una nuova dimensione lavorativa e affettiva.
Si è detto della necessità di ridefinire costantemente il progetto migratorio di cui è protagonista il migrante con il sostegno degli operatori. A tal proposito vogliamo qui sottolineare la necessità di distinguere tra una modalità di intervento funzionale, ovvero capace di contribuire a quel progetto migratorio a cui sopra si è accennato ed una modalità di intervento disfunzionale, quale quella che spesso si riscontra all’interno dei servizi.
La modalità disfunzionale appare tale quando ricorrono un duplice ordine di condizioni: la prima condizione riguarda il frammentato sistema di accoglienza all’interno del quale il migrante corre il rischio di passare tra diversi servizi, nei quali egli si trova ogni volta a ricostruire la propria storia, incluse le esperienze più dolorose e traumatiche, senza che queste ricostruzioni divengano un patrimonio condiviso, che vada a costituire una sorta di “diario clinico” raccolto da un professionista, uno psicologo e che diventi consultabile dai diversi servizi che tutelano il migrante, evitando la spesso inutile e dannosa rievocazione del passato. La frammentazione del sistema si traduce in un aggravio del già faticoso lavoro psicologico del migrante: non solo, infatti, il migrante sperimenta la non rassicurante assenza di un coordinamento tra le strutture che si prendono cura di lui, ma egli è anche esposto alla frustrante sensazione dell’inutilità ogni qual volta consegna la propria storia.
La seconda condizione per la quale si può definire disfunzionale la modalità di intervento risiede nel fatto che l’assistenza psicologica realizzata all’interno dei servizi non è quasi mai chiamata, né potrebbe comunque farlo, a realizzare un intervento di cura delle sofferenze più profonde, ma dovrebbe essere orientata al raggiungimento di un progetto di emancipazione ed autonomizzazione. La reiterata insistenza sulle cause della partenza, o sui traumi del viaggio, non solo rischia di non essere utile alla elaborazione degli eventi traumatici, ma di spostare inutilmente l’attenzione del migrante verso il passato, divergendo da una traiettoria più funzionale protesa al futuro.
Ovviamente un percorso di accoglienza volto a favorire la possibilità di costruzione di una vita autonoma deve prevedere l’acquisizione di competenze linguistiche, sociali e professionali, favorire la creazione di una rete di relazioni affettive e amicali, anche e soprattutto al di fuori dello “spazio sociale” ridotto e riduttivo del luogo di accoglienza, ma non può trascurare la ricerca della salute e del benessere psicologico e relazionale.
A tal proposito, infatti, è noto quanto i migranti titolari di protezione umanitaria giungano, o comunque possano trovarsi, in una condizione di disorientamento e fragilità, che non impropriamente potrebbe essere definita come “shock transculturale”, condizione dove si sommano le difficoltà legate al cambiamento del linguaggio, delle modalità comunicative, degli odori, dei sapori, di tutto il sistema valoriale e le difficoltà legate alle cause drammatiche e traumatiche che hanno imposto il progetto migratorio.
Un percorso di accoglienza funzionale, efficace, dei titolari di protezione umanitaria, pertanto, non potrà che essere caratterizzato da una serie di interventi multidisciplinari e multifocali, con una strategia generale e tanti interventi individualizzati e “cuciti” su ogni richiedente asilo, realizzabili solo grazie a una ricchezza di competenze e ad un approccio coerente con il raggiungimento di numerosi e fondamentali obiettivi.
La complessità di questo percorso che richiede un faticoso travaglio psicologico da parte del migrante può svolgersi solo con un personale competente, esperto e sensibile nei servizi, soprattutto nella fase più strutturata dell’accoglienza, il sistema Sprar: i soggetti che giungono in un centro Sprar arrivano da esperienze migratorie e da percorsi di prima accoglienza molto diversificati, sono caratterizzati da diversi livelli di stabilità psicologica, di motivazioni all’autonomia, di aspirazioni e di chiarezza rispetto al progetto di vita di cui sopra si è fatto cenno.
E tuttavia, al cospetto di tale complessa eterogeneità, la durata del soggiorno nel sistema Sprar è definita e richiede, quindi, una grande capacità di dosare le azioni di sostegno, di formazione e la definizione dei possibili obiettivi di crescita del soggetto. L’analisi di queste condizioni e le successive valutazioni potranno poi costituire la base per la costruzione del progetto migratorio, individuare gli obiettivi sociali e lavorativi realistici e sostenere le persone nella delicata fase di passaggio all’autonomia.
A tal proposito avvertiamo come importante sottolineare che per la costruzione del progetto migratorio, per il “passaggio all’autonomia”, è necessario inclinare l’asse che orienta il lavoro con il migrante titolare di protezione internazionale verso una modalità di assistenza, ovvero una prospettiva di intervento, maggiormente orientata al futuro, tesa a consolidare un progetto migratorio che pur ricordando il passato, sappia guardare al domani e sappia fare del domani la stella polare del progetto migratorio.
Come precedentemente detto, la rigidità dei tempi di permanenza può voler dire che i soggetti giungano alla fine del loro percorso più o meno preparati, o altrimenti detto, non essendo riusciti a raggiungere completamente gli obiettivi individuati nella fase di presa in carico. Ancor più, sarà possibile che al termine del progetto di accoglienza il titolare di protezione internazionale abbia raggiunto tutti gli obiettivi previsti, ma non possegga quel livello di “salute psicologica” ambito, o per quanto i risultati formativi siano raggiunti e persista un buon livello di sanità mentale, manchi ancora un metro, un ultimo miglio da percorrere per centrare l’obiettivo dell’autonomizzazione.
Come è possibile quindi definire standard comuni per i progetti di accoglienza se le variabili umane, sociali, culturali, psicologiche sono infinite?
E’ proprio dall’analisi dei risultati non raggiunti, e quindi delle fragilità con cui il soggetto rischia di lasciare il mondo Sprar, che è necessario partire per costruire un adeguato progetto di autonomia. Abbiamo sottolineato come tale percorso sia profondamente influenzato dalle condizioni psicologiche del soggetto, dalla sua capacità di sottoporre a continua rielaborazione il proprio progetto migratorio; di ridefinire i propri obiettivi anche alla luce delle possibilità che concretamente si offrono; e, ancora, di saper superare le molte lacerazioni che tutto il processo migratorio, sino al momento di un più o meno consolidato inserimento nel tessuto sociale, comporta.
Proprio su queste competenze psicologiche è necessario fare attenzione, anche in relazione al tipo di meccanismo psicologico che gli utenti delle strutture tendono a costruire con gli operatori e con le strutture medesime. E’ infatti evidente come la positura psicologica più “naturale” dopo aver sperimentato traumi, incertezze profonde anche rispetto al riconoscimento dello status, lacerazioni e separazioni, sia quello di disporsi in una condizione di accudimento/dipendenza che può oscillare verso posizioni di opposizione e rabbia. E’ infatti su questo asse che si riesce a gestire con meno sofferenza tanto le attese salvifiche quanto le frustrazioni o le ansie di dover scoprire, ad esempio, che lo status di protezione umanitaria non garantisce poi, al di fuori del sistema, grande protezione.
Passare da questa tipologia di relazione a quella di una più realistica relazione d’uso e di servizio con le strutture e gli operatori, relazione che include, certo, anche una dimensione affettiva, ma già improntata all’autonomia e quindi al superamento della struttura medesima, costituisce il compito psicologico più gravoso.
L’obiettivo di questo cambio di rotta nelle relazioni tra utenti ed operatori, è quindi il raggiungimento di una relazione caratterizzata da dinamiche che vedono gli operatori al servizio dei migranti, impegnati ad offrire un intervento professionale (includendo nella definizione di intervento tutte quelle modalità utili a favorire il raggiungimento degli obiettivi) ed i migranti in una posizione proattiva ed emancipativa.
La funzione del lavoro psicologico nella struttura Sprar, e ancora in modo più marcato nell’ambito dei percorsi di autonomia, risiede quindi nel costante processo di sostegno al migrante a pensare, ripensare e orientare il progetto migratorio e di autonomia: sentirne la concretezza e la fattibilità; costruire un sentimento di fiducia nel percorso di integrazione individuato; gestire le frustrazioni nelle fasi di uscita dalle strutture e naturalmente nel lavoro di rielaborazione delle sofferenze e lacerazioni proprie del percorso migratorio. Al contempo, medesimo impegno deve essere posto nell’evitare che il personale del sistema di accoglienza favorisca la costruzione di una relazione di dipendenza, che oscilli dal tentativo di accudimento e rassicurazione, al sentimento espulsivo e di insofferenza. Grandissima attenzione va prestata alla capacità del personale di essere di sostegno, di stimolo, capace di empatia e ascolto, ma sempre attento ad evitare reazioni di invischiamento e passivizzazione.
L’azione di sostegno all’autonomia costituisce un momento topico per la ricostruzione di un progetto migratorio: nel senso di definizione, precisazione, riformulazione o individuazione (mai come in questi casi è opportuno parlare di vera e propria “individuazione”) di un progetto migratorio che possa dirsi tale, in termini di sensatezza e sostenibilità.
Ed ancora, l’azione di sostegno psicologico all’autonomia rappresenta una condizione imprescindibile per il raggiungimento degli obiettivi e dei risultati previsti in un percorso volto all’autonomia del migrante richiedente protezione umanitaria. L’acquisizione delle capacità linguistiche, l’acquisizione dei una maggiore padronanza rispetto alla interazione nel mercato del lavoro italiano ed europeo, i risultati e gli indicatori che saranno valutati al fine di valutare positivamente il percorso di autonomia, avranno ben poche possibilità di essere raggiunti se non accompagnati dal costante e funzionale sostegno psicologico.
Nel lavoro con i migranti titolari di protezione internazionale, oltre ad essere doveroso ricostruire un possibile significato del progetto migratorio, è necessario realizzare un processo dinamico di costante ridefinizione degli obiettivi, purché siano stati chiaramente identificati, valutati e validati, per valutarne la coerenza con le competenze psicologiche e le risorse interiori attivate, in ordine a garantire ragionevoli probabilità di successo.
Se volessimo, in via puramente semplicistica, indicare le tappe salienti del processo di presa in carico e autonomizzazione, possono essere individuati nelle fasi di ingresso e di uscita dai centri Sprar, a cui vanno aggiunti gli step legati ai percorsi individuali attivati. Sono questi i momenti ineludibili in cui l’analisi del benessere psicologico della persona va certamente svolto.
Nei primi vanno inseriti:
1. la fase del riconoscimento dello status e ingresso nel centro Sprar: è un evento traumatico e di grande valore simbolico cui si associa l’ingresso in un luogo fisico nuovo, il centro Sprar, con la necessità di creare nuove relazioni di aiuto, nuove relazioni amicali;
2. la fase dell’uscita dal centro Sprar: questa comporta la necessità di un momento di verifica delle risorse interiori, della necessità dello sganciamento dai servizi, alla rottura di alcuni rapporti di fiducia e di amicizia creati.
Per quel che riguarda le variabili individuali, vanno considerati i principali momenti connessi alle attività volte all’inserimento socio lavorativo: in particolare, i momenti di avvio e termine di percorsi formativi, di stage e tirocini lavorativi, i cambiamenti della dimensione alloggiativa (dai centri alle soluzioni di accoglienza diffusa).
Le tappe indicate costituiscono certamente i momenti in cui l’assessment psicologico di ciascuna persona, dal punto di vista delle abilità, della capacità di autonomia e di resilienza, sono necessari per poter definire i punti di forza e di criticità e poter calibrare ciascun percorso individuando le modalità di supporto più adeguate per poter garantire maggiori chance di successo.
Quindi, al fine di raggiungere un cambiamento che sia davvero sostanziale all’interno delle relazioni di aiuto tra operatori e migranti, ma ancor più al fine di monitorare, analizzare e di seguito modificare le criticità del Sistema di accoglienza e definire modalità innovative di accoglienza ed un potenziamento del percorso di autonomia dei titolari di protezione internazionale, dovrà essere necessario porre particolare attenzione su una gamma di indicatori che caratterizzano la qualità della relazione di aiuto e porre medesima attenzione sugli indicatori di emancipazione ed autonomizzazione dei migranti, sia per modificare le modalità operative che non consentono un risultato favorevole, sia per riflettere e ripensare agli obiettivi ed eventualmente modificarli sulla base delle reali possibilità, su quanto nella realtà si potrà raggiungere.