L’adolescenza liquida. Una riflessione e revisione del concetto

di Arturo Casoni


L’adolescente, né bambino né adulto, riceve la sua identità dal mandato sociale che la società degli adulti gli consegna. Negli ultimi decenni le trasformazioni sociali e culturali che hanno investito la società, e in particolare la famiglia, hanno in parte modificato la sua soggettività, rendendola “liquida” secondo la definizione di Bauman. Attraverso l’analisi di alcune fenomenologie caratteristiche (le passioni, i media elettronici, il tempo vissuto) si ritrae il “nuovo” funzionamento mentale dell’adolescente contemporaneo, fino alle sue “nuove” forme psicopatologiche.

Cosa vuol dire adolescenza?

 Lo straniero interno
  “L’esistenza di una dinamica descrivibile in termini di disagio, le cui modalità espressive appartengono all’adolescenza/giovinezza, sembra indubitabile. È possibile rilevare, persino come dato transculturale, che per i giovani il disagio - vissuto come momento di eroismo, trasgressione, atto di sfida e di ribellione alla conformità, visto come rischio voluto e con misurata incoscienza - entra, in un certo senso, a far parte addirittura del mito e proprio come tale è celebrato ed esaltato da tanta produzione artistica (letteratura, cinema) soprattutto per i maschi.
Nell’età adolescente, il dinamismo del disagio dev’essere considerato quasi parte integrante del percorso di emancipazione e di autonomia dalla famiglia d’origine, una sorta di scotto inevitabile per affrancarsi dalla dipendenza o per contrastare provocatoriamente chi la incarna o la rappresenta. In queste forme il disagio si presenta di non facile lettura, a causa della sua ambiguità. Come ogni trasgressione, esso esprime infatti, in modo esaltato ed esagerato, il desiderio/bisogno di sfidare la tradizione o di contrapporsi all’ordine costituito, non disgiunto però da quello, altrettanto intenso, di appartenervi, di esserne accolto e integrato. Questo spiega il perché, molto spesso, il disagio ricalchi, nelle sue manifestazioni più estreme, proprio i modelli a cui si contrappone e che intende distruggere o superare”
(Comitato Nazionale di Bioetica, 1999).

La citazione ci viene utile per mettere al sicuro un aspetto dell’adolescenza che non è specifico delle generazioni contemporanee, ma è al contrario un aspetto strutturale, invariante, perfino transculturale della condizione adolescenziale: il disagio nelle sue due valenze, di eroica ribellione alla conformità e di sofferenza che segnala il timore di non essere accettati dall’ordine costituito. L’adolescente come “straniero interno”, che vuole affermare la sua diversità e al contempo pretende di essere integrato.

C’è nella nostra cultura una valenza specifica dell’essere adolescente che lo rende al contempo partecipe ed estraneo. Tutti noi siamo stati adolescenti eppure, se adulti, di fronte ad un adolescente proviamo un senso di disorientamento, di disagio commisto a fascino. Non è bambino, in qualche modo minore – minus habens – bisognoso di cure o attenzione ma “gestibile”; e non è adulto, ma alla pari. Non sappiamo bene se lui o lei ci chiede di fare qualcosa o se la sua domanda è quella di far niente, di lasciarlo fare, di non contrapporci.

Va quindi sottolineato un aspetto – che definiremmo meta-osservativo – che ci deve rendere sospettosi su ciò che la letteratura sull’adolescenza ci propone. Un rischio intrinseco al tentativo di spiegazione del mondo adolescenziale da parte del mondo degli adulti: “nel voler spiegare i problemi dell’adolescenza in maniera così impaziente, l’adulto mostra con tutta evidenza che tali problemi non sono altro che i propri” (Jeanneau A., 1982).

L’adolescente e l’adulto

Io direi che sono due le caratteristiche principali che la nostra cultura dedica all’adolescenza. Da una parte la maturazione biologica, il corpo che si fa abile. Dall’altra il compito sociale di svincolo dalla condizione filiale e l’accesso alla condizione di adulto, con i diritti e i doveri conseguenti.

Nella citazione iniziale, tratta dal documento del Comitato Nazionale di Bioetica, si evidenzia come un’esperienza di malessere/disagio possa essere considerata costitutiva dell’essere adolescente, parte di un dinamismo fisiologico di quella fase della vita, un passaggio obbligato nel percorso di costruzione dell’identità, verso l’emancipazione, la pacificazione e l’autonomia.

Così è, e questa realtà appartiene al nostro modo di rappresentare l’adolescenza già da tempo immemore, visto che Shakespeare nel 1611 scriveva: “Vorrei che non ci fosse l’età che va dai sedici ai ventitre; o che per tutto questo tempo la gioventù che è in noi dormisse sempre. Perché in tutto quell’intervallo non si fa che mettere incinte ragazze, maltrattare gli anziani, rubar la roba e menar cazzotti”.

“Adolescenza, gli anni difficili”, questo è appunto il titolo di un volume pubblicato dal mio Istituto nell’ormai lontano 1993 (Bracalenti R.).

Ma l’adolescenza è anche l’aurora della vita autonoma, l’epoca dell’apertura al mondo, delle possibili libertà mai prima possedute. Non è soltanto disagio o difficoltà evolutiva. Quest’aspetto della condizione adolescenziale è spesso ignorato da parte del mondo degli adulti, che sembra avere i suoi problemi di identificazione-proiezione con l’adolescenza. Come sottolinea Sandro Gindro, tali problemi inducono gli adulti “ad espropriare gli adolescenti delle loro fantasie a favore della proprie” e in particolare a considerare gli adolescenti come adulti “imperfetti”, in via di costruzione, ciò che rischia di misconoscere la legittimità del loro essere al mondo così come sono oggi: “È vero che ogni adolescente sarà l’uomo maturo e adulto di domani (o almeno si spera) però io penso che prima di tutto il giovane debba essere rispettato nella dignità del suo stato specifico, consentendogli di realizzare le esigenze esistenziali che lo caratterizzano nel suo presente e non solo in prospettiva di quello che sarà il suo futuro” (Gindro S., 1993).

Troppo spesso sentiamo ripetere dagli amministratori delle politiche sociali che gli adolescenti sono importanti perché “sono gli adulti di domani”.

E oggi loro esistono? Gli adolescenti, pensano questi signori, devono fare in  fretta a divenire quello che ancora non sono ma che sicuramente sono “condannati” a divenire: adulti.

Nella psiche degli adulti l’adolescenza è percepita spesso con invidia. Vedono in loro la possibilità di fare ciò che a noi non è riuscito, il possesso di un tempo lungo davanti, un aureo futuro al quale noi abbiamo dovuto rinunciare. Si guarda lui/lei e si pensa a noi, a quello che non siamo diventati. E ancora, troppo spesso gli adulti descrivono quei loro anni dell’adolescenza come felici e spensierati, cercando di non ricordare quanto invece siano stati difficili. Si proietta nella propria adolescenza qualcosa che non vi è stata, ma che ora preferiremmo pensare del nostro passato, come “paradiso perduto”. L’adolescenza ha quindi un potere mitopoietico che attira su di sé caratteristiche che talvolta sono distanti dalla realtà di quell’esperienza concreta.

C’è poi un altro aspetto perturbante dell’adolescenza: loro sono belli. L’ideale di bellezza della nostra cultura, il nostro canone estetico, riproduce più o meno il corpo di un/una adolescente. Dalla scandalosa Lolita di Nabokov o le stravaganti e sensuose adolescenti di Balthus fino ai sensuali ragazzini di Caravaggio è il loro corpo che si fa portatore di una attrattività che facciamo fatica a riconoscere in noi.

Quindi non bisogna lasciarsi andare lungo il piano inclinato che ci porta a stigmatizzare l’adolescenza come momento di disordine da guarire, e l’adolescente come soggetto da normalizzare.  Questa deriva molto pericolosa emerge spesso riguardo all’impatto sull’opinione pubblica che hanno di solito gli studi sugli health risk behaviors, quando si deve parlare dell’adolescenza come popolazione “a rischio”. La stigmatizzazione degli adolescenti come popolazione portatrice di problemi tout court produce sull’opinione pubblica un effetto peggiorativo e punitivo per quella fascia di popolazione. Una spiegazione di questa deriva interpretativa, come si diceva più sopra, può essere compresa sulla base di una sorta di effetto di rispecchiamento negativo che la figura dell’adolescente produce sulla società adulta, la quale tende a proiettare su di loro i suoi problemi di violenza-droghe-sessualità disordinata [2].

Dall’altro canto, ciò non deve portarci ad una sorta di indifferente ignoranza riguardo alle specificità di dramma di questa fase della vita. Se il malessere c’è, tale malessere va comunque fronteggiato, sia per rendere meno accidentato il percorso di sviluppo degli adolescenti, sia per impedire che tale malessere si trasformi in una problematica più complessa, con un esito in vere e proprie forme di psicopatologia o di devianza cronicizzata. Ed è fondamentale ricordarsi che, nel giudizio clinico, è straordinariamente difficile con il soggetto adolescente riuscire a predire uno sviluppo, e porre una diagnosi differenziale tra ciò che attiene al disagio fisiologico e ciò che invece è prodromo di psicopatologia.

Va ricordata ancora – a proposito delle rappresentazioni diffuse – un’interpretazione dell’adolescenza che è presente nella nostra cultura, forse più in quella umanistico-letteraria e meno in quella scientifica. Tale interpretazione valorizza, dell’adolescenza, gli elementi più trasgressivi, e, se si vuole, coglie un’immagine romantica dell’adolescente inteso come portatore di valori positivi, ribelle nei confronti di un mondo di adulti ormai annientati dalla banalità della vita quotidiana. In qualche modo l’adolescente come “eroe-poeta maledetto”. In contrasto con l’immagine dell’adulto svuotato di desideri, fantasie, capacità progettuali, l’adolescente assume qui il significato di un soggetto propositivo poiché inquieto, insoddisfatto e perciò stesso dinamico, vitale, in cerca di qualcosa.

Il suo andare alla ricerca si identifica con un atteggiamento produttivo, mentre l’età adulta, con la fine di una serie di tensioni, appare come introdotta dalle rinunce. “Adulto” è quindi colui che ha rinunciato alle passioni e alle sfide, chi, nel confronto con i dati della realtà, ha ceduto il passo alla banalità della vita quotidiana, ai compromessi, in ultima analisi alla rinuncia esistenziale. Il portato di questa impostazione, agli effetti di una interpretazione della dialettica disagio/benessere, è che la salute psichica consisterebbe nel mantenere vivo l’adolescente che alberga in ognuno di noi, con le sue imprevedibilità, i suoi sbalzi d’umore, la sua instabilità, le sue passioni brevi ed intense.

Paradossalmente, sarebbe quindi “sano” chi si rifiuta di crescere, di omologarsi, colui che riesce a mantenersi in una condizione di “eterno adolescente”. Tale interpretazione, che inevitabilmente appare come estremistica sotto alcuni aspetti, ha comunque in sé qualcosa di genuino, se non altro riguardo a quell’idealizzazione dell’adolescente che fa parte della nostra cultura, e di cui essa ha bisogno per sopravvivere.

Ma questa immagine dell’adolescente come “eroe-poeta maledetto” si scontra con l’evidenza della realtà esistenziale concreta e quotidiana di molti giovani di oggi – e forse di sempre – caratterizzata da modelli e stili di vita assolutamente conformisti, passivi, consumistici, omologati verso il basso, senza alcuna originalità o eroismo. Secondo questa lettura – opposta alla precedente – gli adolescenti sarebbero la popolazione più esposta a quella sorta di “inquinamento consumistico” diffuso, generalizzato e inconsapevole, che li ha resi “consumatori di merce” e non persone in grado di autodeterminarsi (cfr. Laffi S. 2000, 2003).

La dialettica tra questi due opposti ed estremi modi di rappresentare l’adolescente – da una parte eroicamente attivo e dall’altra passivo consumatore di merci – circoscrive un’area di riflessione che ci offre lo stimolo per non ridurre eccessivamente una realtà complessa quale è la condizione adolescenziale [3].

 

L’adolescente e la psicoanalisi

Ma torniamo alla domanda posta dal titolo, secondo una lettura più scientifica: cosa vuol dire adolescenza?

È doveroso dare la priorità alla riflessione psicoanalitica sull’adolescenza, in quanto ci sembra che proprio il concetto di “adolescenza” abbia molto risentito delle influenze interpretative apportate dagli psicoanalisti – da Sigmund Freud in poi [4] – fin quasi a costituirne il concetto stesso nell’accezione moderna che tutti noi utilizziamo. Nel “dopo Freud”, la psicoanalisi si è orientata – con Anna Freud (1958), E. Erikson (1968), e quindi con Peter Blos (1988) e i due Laufer (1986) – verso il riconoscimento dell’adolescenza come tappa evolutiva fondamentale nella costituzione della personalità umana.

Cercando di evitare gli aspetti di tecnicismo estremo di alcuna psicoanalisi,  e quindi con il rischio di ridurre la complessità del pensiero psicoanalitico, mi sembra di poter identificare un elemento caratterizzante la condizione adolescenziale: il corpo e le trasformazioni delle sue funzioni. C’è, in adolescenza, la necessità di integrare nell’immagine di sé il corpo, che non è solo il corpo sessuato, ma è anche il corpo come strumento spaziale di misurazione del reale, come mezzo di espressione simbolica, come oggetto di investimenti narcisistici, come possibile strumento di offesa: il corpo come luogo dell’identità. Aspetti che, seppur non tutti direttamente sessuali, vi sono strettamente connessi. Massimo Recalcati, a proposito del ”farsi corpo dell’adolescente”, scrive: “E’ infatti proprio a livello del corpo che si traccia la prima e più impressionante scansione tra adolescenza e infanzia. L’adolescente assiste al vivo del proprio processo di trasformazione corporea, allo svilupparsi del corpo e degli organi genitali” (Recalcati M., 2003).

La sessualità, non a caso, è da sempre stata considerata come un’area problematica dell’età adolescenziale. Eppure, è assolutamente un infingimento – dopo la teorizzazione di Sigmund Freud a proposito dell’evoluzione psico-sessuale del bambino (Freud S., 1905) – l’identificazione dell’adolescenza come momento di “nascita” della sessualità, sia in senso biologico sia psicologico.

È però senza dubbio vero che questo periodo della vita è caratterizzato dal riconoscimento sociale e culturale del corpo sessuato. Se, nell’opinione corrente, si tende a considerare la sessualità come assente nella vita di un bimbo di cinque anni, questo certo non accade in quella di un sedicenne. La sessualità, dalla pubertà in poi (pubes, i peli del pube) si manifesta come fenomeno evidente, e, cosa ancor più significativa, socialmente riconosciuto. Raffaele Bracalenti così scrive: “Gran parte del tumulto emotivo che si riscontra in adolescenza non è da porre, allora, in relazione alla necessità di trovare oggetti d’amore diversi da quelli parentali, e neppure alla possibilità di mettere in atto gesti esplicitamente sessuali – poiché entrambe le cose fanno parte del ricco bagaglio d’esperienze del bambino – ma al diritto socialmente acquisito di potersi innamorare e di poter ‘fare l’amore’. Il diritto acquisito diviene infatti anche un dovere, ma la sessualità esplicita ed esibita turba e spaventa” (Bracalenti R. 1993) .

Questo breve accenno ad un tema che andrebbe sviluppato con ben più spazio, ci serve ad evidenziare l’importanza della sessualità adolescenziale, come area di esperienza in trasformazione, in questo passaggio verso la sessualità adulta – con le concessioni e le limitazioni che la caratterizzano – che sicuramente assorbe su di sé una grossa fetta di quello che è definito normalmente il compito evolutivo dell’adolescente. E sicuramente la sessualità è, anche, catalizzatrice di una grossa fetta di quello che è considerato il disagio della crescita adolescenziale.

Poi c’è la questione dell’adolescenza come lutto da elaborare: secondo questa prospettiva, il lavoro dell’adolescente consiste nell’imparare a fare a meno degli “oggetti mentali” infantili, dai quali deve imparare a distaccarsi, rinunciando perciò alla propria infanzia. Ma questo tema ci porterebbe troppo lontano.

Cosa vuol dire adolescenza “liquida”?

La contemporaneità

 Ci troviamo in un’epoca in cui i teorici del divenire sociale – che siano sociologi, filosofi, storici o altro – ci vanno segnalando un cambiamento di paradigma nella costituzione delle soggettività, sia individuali sia collettive, che spesso viene definito attraverso la contrapposizione tra i termini “moderno” e “post-moderno” [5].

Nel panorama delle varie teorie critiche che in qualche modo fanno riferimento alla descrizione post-moderna dell’attuale condizione sociale e umana – senza entrare nel merito della loro pregnanza – abbiamo fatto nostra la metafora della “liquidità” ripresa da Zygmunt Bauman [6], e l’abbiamo accostata all’adolescenza. Vediamo perché.

Il sociologo ha paragonato il concetto di modernità e post-modernità rispettivamente allo stato “solido e “liquido” della società. Secondo Bauman, nella modernità la morale è la regolazione coercitiva dell’agire sociale attraverso la proposta di valori o leggi universali a cui nessun uomo ragionevole (la razionalità è caratteristica della modernità) può sottrarsi. Non si può invece parlare di un’unica morale post-moderna, perché la fine delle “grandi narrazioni” del Novecento, cioè le ideologie, ha reso impossibile la pretesa di verità assolute, e quindi ci troviamo in uno scenario abitato da tante morali coesistenti [7]. Da qui deriva la metafora della “liquidità”, contrapposta all’organizzazione sociale che si costituisce attraverso principi di valore saldi e solidi. L’uomo post-moderno è orfano di una morale – di un contenitore collettivo e quindi di un codice di comportamento sociale – assoluto e unico. L’incertezza è l’aspetto che lo caratterizza.

A noi è sembrato, leggendo Bauman, che la descrizione di soggetto che egli ci proponeva aderisse esattamente alla condizione degli adolescenti. Ci è sembrato che essi fossero il campione sociologico più indicativo del processo di trasformazione in atto. La condizione adolescenziale, per le sue caratteristiche intrinseche di vitalità e precarietà, segnala con intensità particolarmente evidente l’impatto che le trasformazioni socio-culturali producono sui soggetti, e l’adolescenza diviene in questo scenario la popolazione target per poter indagare gli sviluppi sociali futuri nella sua totalità, quindi una sorta di indicatore di “disagio della modernità”. La crisi riguardo alla certezza e solidità degli organizzatori sociali e identitari ci è sembrato quindi che definisse la condizione adolescenziale.

Plebani vede il problema della costruzione dell’identità giovanile come strettamente correlato al momento storico-culturale in cui viene preso in considerazione. Nell’epoca post-moderna, in cui entrano in crisi i fondamenti di verità tradizionali, in cui la realtà assume un insopprimibile carattere di contingenza, mentre nel contempo viene offerta una eccedenza di opportunità, emergono forme inedite di individuazione e identificazione, con un grande cambiamento nella sfera dell’etica (Plebani T., 2003).

Silvia Vegetti Finzi e Anna Maria Battistin (2000) vedono appunto nell’incertezza il termine che meglio definisce questo periodo di vita: incerto il modo d’agire degli adolescenti, incerti i ruoli genitoriali, incerti i valori di riferimento, incerti i confini temporali dell’adolescenza, incerta anche la chiave di lettura psicologica possibile.

Il venir meno di certezze consolidate, se da una parte ha determinato un accrescimento del senso di precarietà dell’individuo, dall’altra ha trasformato il campo delle sue appartenenze, non più caratterizzato dall’esclusività, ma dalla pluralità e dalla mobilità.

Ciò vale sia per le appartenenze della sfera privata sia per quelle della sfera sociale. Vediamo di elencarne sinteticamente alcuni aspetti, cercando di raggruppare le varie caratteristiche del mondo adolescenziale all’interno di “contenitori” fenomenologici.

Gli affetti e le passioni

L’adolescenza, si è detto, è zona di frontiera, tra l’infanzia e l’età adulta. Questa scansione ci porta a rappresentare l’adolescente in un’interzona affettiva tra la famiglia di origine, che è il luogo affettivo dell’infanzia, e la costruzione di un universo affettivo autonomo, ciò che – nelle sue molteplici e variabili forme – caratterizza la vita adulta.

Vediamo come la modernità liquida articola questi due scenari.

Si pensi alla provvisorietà della famiglia contemporanea, così frequentemente segnata da separazioni, divorzi, ricostituzioni, e alla conseguente rarefazione/trasformazione della funzione genitoriale. Se fino a qualche generazione fa si aveva la quasi certezza di nascere in una famiglia abitata da un padre e una madre, e di ritrovarsi con gli stessi genitori, nella stessa famiglia, a 16 anni, ora le percentuali di adolescenti che vivono in una famiglia “monoparentale”, “ricostruita”, “allargata” ad altri soggetti non legati da vincoli “di sangue” sono drammaticamente aumentate [8]. Ciò, ovviamente, non segnala soltanto aspetti di degrado riguardo all’istituzione familiare – visto che litigi e disordini tra genitori non sono certo una novità degli ultimi anni -. Si può dire che dagli anni ’70 in Italia, con la legge sul divorzio, si è inaugurata una stagione in cui i conflitti familiari hanno avuto più spazio per la mediazione, per la condivisione di ciò che rimane comune (i figli!), per la costruzione di  nuovi contesti familiari in grado – talvolta – di portare benessere anche ai figli. Ma è pur vero che le ultime generazioni di adolescenti segnalano le contraddizioni inaugurate in una stagione iniziata forse prima di quaranta anni fa. Gregory Bateson diceva che “per fare uno schizofrenico ci vogliono tre generazioni”. Qui potremmo dire che – mutatis mutandis – per fare un adolescente “liquido” ce ne vogliono per lo meno due.

Per gli adolescenti contemporanei, quindi, la famiglia è qualcosa di incerto e spesso mobile. Ci può essere oggi e domani non più. E se è vero che gli esseri umani si costituiscono anche a partire dalle dinamiche emozionali e affettive che si instaurano all’interno del triangolo familiare – come ci insegna Sigmund Freud -, ciò non può non generare delle profonde trasformazioni nella soggettività di questi individui.

Tra l’altro, all’interno delle cosiddette “nuove famiglie” si assiste a trasformazioni radicali dei ruoli svolti al suo interno dai vari soggetti in gioco e, in particolare, i ruoli genitoriali materno/paterno hanno subito straordinarie modificazioni nella loro struttura [9].

Riguardo all’esercizio degli affetti fuori dalla famiglia, gli adolescenti contemporanei si caratterizzano per ciò che è definita la liberalizzazione e moltiplicazione delle esperienze affettivo-sessuali.  Se da un lato ciò corrisponde a verità per molti di loro, ed è innegabile lo “sdoganamento” culturale che la nostra società ha prodotto sulla liceità dei rapporti sessuali e affettivi in età adolescenziale, dall’altro ciò non è sempre vero. E, comunque, si assiste spesso ad un effetto apparentemente paradossale di “miseria” affettivo-sessuale in un contesto sociale e culturale che dovrebbe garantire una ricchezza di relazioni. Questo aspetto lo potremo forse spiegare nel paragrafi successivi.

I media elettronici e la solitudine

Un aspetto del disagio giovanile è, con apparente paradosso, la conseguenza del benessere socio-economico acquisito. La modernizzazione della società, e in particolare l’avvento delle nuove tecnologie – internet, video-giochi, chat, blog, telefoni cellulari, moltiplicazione dei canali tv, ecc. – ha modificato le abitudini e gli stili di vita degli adolescenti in modo straordinariamente evidente. L’influenza esercitata dai mass-media e dalla comunicazione tecnologica, che ha introdotto la presenza virtuale dell’altro, sta producendo delle modificazioni nella rappresentazione cognitiva ed affettiva dello spazio relazionale. Gli adolescenti del 2000 sono a pieno titolo la prima generazione che è stata culturalmente “nutrita” fin dalla nascita con media elettronici: digital native, nativi digitali. Talvolta questi media hanno avuto una funzione di protesi per compensare un vuoto di relazione: basti pensare al bambino o al ragazzino lasciato solo in casa, mentre gli adulti sono al lavoro, davanti alla tv, al computer, al tablet o alla play station.

Si badi bene, qui non si vuole sostenere che i media elettronici sono la causa del disagio. Tutt’altro, visto che essi strutturalmente si offrono come strumenti di facilitazione e ampliamento della comunicazione e quindi delle possibilità di relazione. Ci riferiamo ad un uso che spesso si fa di essi, che va a modificare e strutturare una miseria relazionale che viene da altrove, da altre cause. Comunque, i media elettronici abitano a tal punto la vita quotidiana degli adolescenti – a differenza degli adulti che spesso ne fanno un uso strumentale e parziale – fino a permetterci di pensare che la loro cognizione del mondo, la loro percezione dello spazio esistenziale e relazionale, ha subito delle modificazioni profonde.

I ragazzi  d’oggi, anche per questo, sono – in parte – diversi da noi. Certamente le competenze di uso di uno strumento elettronico che un ragazzo ha sono di solito superiori a quelle che ne ha un suo genitore. E questa ignoranza da parte degli adulti spesso crea un gap, una non comunicazione tra le generazioni.

Si può dire comunque che esistono due categorie di adolescenti: quelli che hanno molti strumenti emotivo-affettivi per vivere nel mondo della complessità mediata dall’elettronica, e quelli che ne hanno pochi. Questi ultimi sono poco capaci di organizzare la propria autonomia, il proprio quotidiano, i propri affetti nel momento dell’incontro con l’altro. In qualche modo celano le loro difficoltà di incontro e confronto con la realtà attraverso la mediazione elettronica. Quelli che hanno meno strumenti per interagire con la complessità, subiscono una difficoltà ad aderire ad una dimensione profonda, con un conseguente appiattimento sui modelli dei media. Coloro che hanno più strumenti, si rappresentano un presente allargato, fatto anche di presenze virtuali.

In adolescenza uno dei primi segni – dei prodromi, si potrebbe dire – di chiusura al mondo, di ritiro dalle relazioni, è spesso manifestato da un’ipertrofia e moltiplicazione delle interazioni virtuali. Più tardi la famiglia si accorgerà che “qualcosa non va”, che il ragazzo “va male a scuola”, che “non esce più con gli amici”, che “da mesi non ha più la ragazza”, che “la sera torna a casa stravolto”. Si copre il ritiro attraverso un’apparente ricchezza e molteplicità di comunicazioni mediate, filtrate. L’assenza del carattere direttamente esperienziale della vita, e del suo aspetto relazionale in particolare, talvolta quasi soltanto ridotto al virtuale, produce profonde esperienze di solitudine.

Provo ora a proporre alcune testimonianze raccolte durante un lavoro di ricerca svolto dall’IPRS a proposito del disagio in adolescenza.

“Tranne lo sport, quasi tutti gli altri interessi sono coltivati solo virtualmente”, così ci raccontava un operatore di Cagliari degli adolescenti ‘normalissimi’ con i quali si trovava ad interagire. “L’associazionismo giovanile si può oggi ricondurre e ridurre al mondo delle chat, dei blog e dei forum su Internet, che sono i luoghi virtuali di incontro in cui i ragazzi si confrontano e si aggregano sulla base di interessi comuni”, questo lo abbiamo sentito a Bergamo. “Le competenze di interazione che gli strumenti tecnologici offrono, si manifestano come inefficaci nel momento dell’incontro, dello scambio. Oggi i giovani sono più competenti in tanti campi, però sempre dal punto di vista individuale.

Il disagio è poi: ‘dove spendo queste cose, con chi e come?’ Non sanno relazionarsi a due, si difendono e si confondono nel gruppo, non hanno parole per dire…”, così ci hanno detto a L’Aquila. “Vi è una forma di disagio meno visibile: le grandi solitudini dei ragazzi che vivono in una dimensione povera di relazioni. È la povertà dei significati che porta ad un appiattimento sul versante dei consumi. Assistiamo ad una sorta di analfabetismo emotivo-affettivo: la mancanza di codici con cui riconoscere e gestire le emozioni/affetti”. Così a Bergamo [10].

La mancanza negli adolescenti di strumenti per relazionarsi arriva quindi a far parlare gli operatori di una sorta di assenza di strumenti linguistici e cognitivo-affettivi. La molteplicità delle opzioni di comunicazione si scontra con la riduzione al virtuale dell’altro, in una sorta di ‘protesi’ della presenza con nuove forme di esperienza della solitudine. Se è vero che il medium elettronico fattualmente facilita e avvicina l’altro nel suo essere prodromo di un incontro reale con l’altro, l’abuso consumistico del medium – così presente negli stili di vita adolescenziali – produce l’illusione della condivisione, la feticizzazione dell’incontro, la moltiplicazione all’infinito degli incontri fino alla sincope della solitudine parlante di fronte ad uno screen. In questo senso i media elettronici – che strutturalmente sono definibili come facilitatori di relazione – in alcune situazioni di disordine o impossibilità di relazione, possono indurre una specifica sindrome di protesizzazione della  presenza illusoria, e così far cronicizzare l’esperienza di solitudine. Le competenze di interazione che gli strumenti tecnologici offrono, se non ben integrate con le altre, si manifestano come inefficaci nel momento dell’incontro, dello scambio vis a vis. A queste competenze si associa una non competenza rispetto alla dimensione emotiva. Assistiamo quindi ad una sorta di incapacità a riconoscere la presenza dell’altro con un rischio che alcuni autori definiscono di deumanizzazione  dell’universo relazionale (cfr. Semi A.A., 2006).

Citando Levinas (1987), verrebbe da dire che l’assenza dello “sguardo nudo dell’altro” introduce ad un’esperienza di perdita di senso. Ciò implica una tendenza all’inazione e quindi una difficoltà nell’attivarsi in situazioni concrete di impatto con il reale.

In questo scenario – forse descritto con toni un po’ troppo drammatici – possiamo collocare quella che abbiamo definito la miseria affettivo-sessuale di alcuni adolescenti contemporanei. Questa non competenza all’esercizio degli affetti e delle emozioni – che, lo ripetiamo, non è generata dai media elettronici, ma ne è influenzata – non può non sortire degli effetti su quell’area così importante per essi che è l’identità di genere, la sessualità, il corteggiamento, il godimento sessuale, l’innamoramento. Talvolta – ma non sempre, per fortuna – i racconti che gli adolescenti ci fanno della loro vita manifestano una assenza di fatto di relazioni, oppure, talaltra, una costellazione di episodi di corteggiamento, spesso coronati da successo, fino alle “scopate”, ma che vengono raccontati senza partecipazione emotiva, senza spessore affettivo, in forma straniata. Le esperienze – e qui ci sforziamo di non separare ciò che riguarda la sessualità da ciò che attiene al mondo degli affetti – scivolano addosso senza lasciare segni, anche quando impegnano i soggetti per un tempo lungo. Tutto è ridotto a quotidianità banalizzata.

Torniamo quindi alle esperienze di incontro con l’altro ridotte a piacere da consumare, e questo fenomeno di miseria ci fa tornare alla mente la mancanza di codici affettivi in grado di dare spessore al vivere.

E’ certo giusto interrogarsi sulle cause che generano queste realtà, ma, inevitabilmente, questo discorso straordinariamente complesso ci porterebbe molto oltre i limiti che ci siamo posti.

La  presentificazione del tempo vissuto

Altro aspetto fondamentale è la relazione esistente tra adolescenza e possibilità sociali di accesso all’universo adulto. Anche a livello statistico, gli indici riferibili all’adolescenza spesso devono esplorare una fascia d’età che giunge ben oltre i 25 anni, quindi molto oltre quei 18 anni che un tempo formalizzavano la maggiore età, l’entrata nel mondo adulto.

La condizione di insicurezza e indeterminatezza nei confronti del futuro è aspetto che caratterizza le nuove generazioni anche riguardo all’entrata nel mondo del lavoro e alla realizzazione di un progetto di vita familiare autonoma.

Oggi l’esigenza principale del sistema produttivo e del mercato del lavoro è quella della flessibilità: l’aspettativa è quella di una vita lavorativa in cui ci si troverà a più riprese nella condizione di dover ridefinire il proprio status occupazionale e, di conseguenza, a riconvertire saperi e prassi professionalizzanti. L’impossibilità di prevedere un percorso lavorativo non precario, l’imprevedibilità del proprio futuro economico, la necessità di attrezzarsi ad un’identità lavorativa multiforme, plastica, cangiante, non può non produrre degli ovvi effetti sulla solidità identitaria. È questa una dilazione forzata che l’organizzazione societaria impone, che prolunga in modo talvolta paradossale il tempo dell’adolescenza, fino a far sfumare i limiti di ciò che è chiamata “post-adolescenza”, e determinando realtà esistenziali a rischio di disagio.

La dilatazione parossistica della durata dell’adolescenza è un segnale chiaro in questa direzione: la società si sta adolescentizzando. Se, da una parte, l’estinzione dei “riti di passaggio” di cui ci ha parlato Van Gennep (1909) determina una impossibilità a formalizzare un suo superamento, dall’altra, l’adolescenza – con i suoi doveri di acquisizione di un’identità sufficientemente solida, di una capacità di fronteggiare i compiti e i ruoli sociali che caratterizzano la vita dell’adulto (un lavoro, una famiglia), di consolidamento di un’identità di genere maschile/femminile – diviene appunto una mission impossibile, e il soggetto non può che aggrapparsi ad una fantasia di ‘eterna giovinezza’,  procrastinando all’infinito l’uscita da questa fase di vita.

Il dato d’ordine sociale-economico dovrà essere allora considerato non soltanto attraverso la valutazione dell’offerta che il mondo del lavoro propone nei vari contesti, ma anche attraverso la capacità di contenimento che le istituzioni tradizionali – famiglia e scuola – offrono in vista di un approdo futuro.

Come dire che, più che la ricchezza delle offerte lavorative che il territorio propone, si dovrebbe andare a sondare la funzione di ‘contenitore a lungo termine’ della famiglia e della scuola.

Tale prospettiva ci è confermata anche dalle indagini che lo IARD svolge regolarmente sulla condizione giovanile in Italia [11]. A proposito del lungo permanere dei giovani in famiglia, emerge che, più che difficoltà di affrancamento dalla famiglia di origine, vi sono determinanti di tipo culturale che inibiscono tale scelta anche quando questa risultasse possibile: “Ci troviamo dunque di fronte a dei giovani che non si attivano certamente per velocizzare i processi di transizione; la tendenza in atto sembrerebbe quella di ‘scegliere’ piuttosto che ‘subire’ la permanenza in famiglia” (Buzzi C. e coll. 2002).

Verrebbe quindi da chiedersi se è vero che i “bamboccioni” esistono, e – se la risposta è sì – se ciò è da riferire casualmente alla smidollatezza degli stessi, oppure ad un dato sociale/culturale/economico che passa sopra la testa dei bamboccioni e dei loro genitori.

La domanda da porsi è: questi cambiamenti del ciclo vitale intervenuti ‘fuori’, nella struttura sociale, quali modificazioni possono produrre ‘nella testa’ degli adolescenti? Come si rappresentano essi il fluire della loro esistenza?

A proposito di rappresentazione del tempo vissuto nei giovani contemporanei, molti ormai sono gli autori che – da prospettive varie, con strumenti di analisi molteplici e applicazioni a contesti diversi – identificano una sorta di denominatore comune riferito alla modificazione indotta riguardo all’orientamento temporale.

Ci si trova di fronte ad una sorta di emergenza innovativa che sta producendo trasformazioni in atto nel sottofondo della collettività, che ancora non è oggetto di attenzione e che bisogna far emergere per darle senso e renderla gestibile [12].

Alessandro Cavalli, che da tempo studia il fenomeno, sottolinea come per le nuove generazioni non sembra esservi nessun elemento di continuità fra passato, presente e futuro, alcun rilievo da un lato per la dimensione del ricordo, dall’altro lato per quella della progettualità e delle aspettative: “nei giovani l’assenza di una concezione strutturata del tempo e della progettualità a medio-lungo termine è legata al desiderio di non restringere con scelte troppo precoci l’orizzonte dei futuri possibili (…) in altri l’assenza di questa concezione del tempo è legata ad una forma di carassi, o debolezza della volontà, che inibisce la capacità di compiere scelte” (Cavalli A., 1980). Un tratto significativo della cultura giovanile della nostra epoca è quello indicato da Cavalli come “destrutturazione temporale”, tipico di quei giovani che esitano di fronte alle scelte che rischiano di diventare irreversibili. “Questi giovani non sono incapaci di scegliere, ma pensano che ogni scelta (di formazione o di lavoro) debba essere considerata provvisoria finché non si saranno sondate adeguatamente le proprie preferenze e predisposizioni e finché non si saranno esaminate con cura tutte le opportunità che la realtà esterna sembra offrire. Rinviare le scelte vuol dire in questo caso non precludersi delle possibilità che  in seguito si potrebbero rimpiangere” (Cavalli A., 2001).

Connesso alla destrutturazione temporale è un altro tratto caratteristico della cultura giovanile attuale, comunemente designato come “presentificazione”: presentificazione come negazione del futuro e del passato (o comunque come enfatizzazione della dimensione del presente), come “tentativo di arricchire il presente di significatività per sé” (Cavalli A., 1985). In un lavoro successivo, lo stesso autore definisce ulteriormente la presentificazione come “l’atteggiamento di chi vuole sentirsi ‘privo di vincoli’, quindi libero di agire in base alle preferenze del momento e alla contingenza della situazione (…) Non viene rivendicata nessuna coerenza nel tempo, anzi, al contrario, il soggetto non vuole sentirsi vincolato neppure dalle scelte che egli stesso ha compiuto in passato. L’identità del soggetto resta in tal modo aperta, ma anche labile perché non prevede una continuità che leghi in qualche modo passato, presente e futuro; la dimensione temporale dominante è quella del presente e il tempo si definisce soltanto come una successione di presenti discreti, non connessi tra loro” (Cavalli A., 1980).

Cavalli sottolinea dunque come la presentificazione, intesa come tratto caratteristico della cultura giovanile dominante, contribuisca ad una labilità della struttura identitaria. Ciò porta a riflettere sui processi di costruzione dell’identità tipici della società in cui viviamo, e in particolare di quei soggetti che appartengono alle ultime generazioni.

E ancora: “La prospettiva temporale, intesa come qualità dello spazio di vita inerente il passato di un individuo, il suo presente e futuro psicologici a un momento dato, riassume in sé tutte le caratteristiche dell’esperienza temporale, secondo differenti livelli di realtà. Essa costituisce, dunque, un quadro di riferimento per diverse decisioni comportamentali, che si specifica e si differenzia nel corso dello sviluppo del soggetto rendendolo in grado di apprezzare tutte le sue possibilità di azione oltre i vincoli posti dalla situazione attuale (…) Parlare di prospettiva temporale significa fare riferimento al processo di formazione dei progetti e dei fini, che in parte si strutturano in base ad esigenze individuali e in parte sono dettati dagli obiettivi che la struttura sociale in cui si incanalano i progetti costitutivi di quel piano di vita propone ed obbliga a proporsi sotto forma di motivazione” (Ricci Bitti P. e coll., 1985).

Per molto tempo la cultura occidentale ha premiato una prospettiva temporale di tipo protentivo, vale a dire che la tendenza a proiettare i propri obiettivi in tempi lunghi costituisce l’esito delle comuni tecniche di socializzazione. Ma qualcosa sta cambiando, e questa destrutturazione temporale, la perdita di una progettualità a medio-lungo termine, la presentificazione come negazione del futuro e del passato, non possono non far pensare a qualcosa di preoccupante riguardo ai meccanismi di costituzione di quella cosa che chiamiamo ‘identità’.

La destrutturazione temporale – connessa geneticamente alla modificazioni intervenute nella società – può quindi essere letta come una sorta di meccanismo difensivo che i giovani hanno prodotto su se stessi per poter operare un accettabile adattamento – in senso darwiniano – ad un ambiente sociale modificato.  Se è vero che ‘identità’ è la continuità dell’Io, la percezione continuativa del proprio essere se stessi inseriti in un contesto sociale e forniti di un senso esistenziale, con l’identità  patchwork o flessibile o liquida i giovani d’oggi sono alla ricerca di una loro coerenza esistenziale.

Si può allora dire che la frammentazione/liquidità dell’identità e la  destrutturazione del tempo giovanile sono due aspetti di un unico fenomeno che ha profondissime radici sociali.

Questi aspetti del tempo vissuto negli adolescenti, come è ovvio, hanno una ricaduta sulla rappresentazione della loro vita emozionale-affettiva, sui due versanti che delimitano l’adolescenza come frontiera tra la famiglia d’origine e l’universo affettivo autonomo in costruzione.

Di questa derivazione i sociologi non possono occuparsi. E’ affare che riguarda gli operatori psi. Si parlava precedentemente della cognizione che essi hanno della famiglia come organizzazione affettiva ‘provvisoria’, inaffidabile nella sua continuità. Il loro meccanismo di difesa, allora, è appunto la presentificazione: oggi c’è, domani forse no, tanto vale non rappresentarsi un futuro possibile.  La famiglia è luogo insignificante come modello da tentare di riprodurre nel proprio futuro. Ma comunque, quando è ‘inevitabile’, sarà riprodotta pedissequamente e in un modo qualunque. Non vi è la possibilità di produrre una sua vitalizzazione innovativa.

A proposito degli affetti ‘fuori’ dalla famiglia, si parlava della liberalizzazione e moltiplicazione delle esperienze affettivo-sessuali. Non è certo nostra l’associazione mentale tra pluralità e superficialità delle relazioni come conseguenza logica inevitabile. Eppure nei racconti degli adolescenti, spesso,  non si può non riconoscere una ‘miseria’ che, quando non riguarda la quantità delle relazioni, ha a che fare con qualcosa che è la loro qualità. Anche in questo scenario la presentificazione si manifesta come riduzione dello spessore  emozionale, con minore attesa passionale, impossibilità a rappresentarsi una sua ricchezza.

Ma, per fortuna nostra, non è sempre così. Esistono anche adolescenti passionalmente solidi.

Le psicopatologie e la loro cura

 La psicopatologia, da sempre, segue e si adatta alle trasformazioni che l’organizzazione societaria e la cultura le impongono, modificando le forme che la caratterizzano. Ne è un esempio, negli ultimi decenni, l’affermarsi e il diffondersi delle diagnosi di Disturbo Narcisistico di Personalità (H. Kohut) e di Borderline (O. Kernberg). Queste forme nosografiche, di derivazione psicoanalitica, hanno una caratteristica specifica: portano in sé le tematiche e le conflittualità tipiche dell’adolescenza, ad esempio le dialettiche tra identità e alterità, estendendole alla vita adulta. Si potrebbe dire che sono ‘l’altra faccia’ dell’adolescentizzazione della società. Se un Disturbo Narcisistico/Borderline di Personalità è, per lo meno in parte, fisiologico in età adolescenziale, esso diviene entità nosologica più avanti, quando si manifesta un’impossibilità per il suo tramonto, un impossibile accesso ad una personalità diversamente strutturata.

In questo senso si può dire che l’adolescenza, come fase della vita ‘di frontiera’, contribuisce notevolmente a modificare le forme in cui la psicopatologia si presenta. Essa ha attratto l’attenzione degli psicopatologi, e specificatamente degli psicoanalisti, fino a divenire il momento di discrimine tra identità infantile e adulta, tra personalità ‘sana’ e struttura psicopatologica. E le modificazioni sociali, culturali e quindi identitarie nelle ultime generazioni hanno prodotto di necessità dei cambiamenti anche nelle forme in cui il disagio si trasforma in psicopatologia.

I segnali estremi in questo senso possono andare dalla straordinaria prevalenza, tra gli adolescenti, di casi borderline e di disturbi gravi della personalità, fino ai comportamenti devianti e dissociali degli adolescenti delle seconde e terze generazioni di immigrati, così come si sono manifestati ad esempio nelle banlieu parigine.

L’emergere di nuove forme di disagio adolescenziale, non sempre inquadrabili all’interno delle classiche categorie diagnostiche della psicopatologia, ha imposto un ripensamento degli interventi rivolti al mondo degli adolescenti, sia sul piano prettamente clinico sia su quello psico-sociale. Come è ormai riconosciuto da molti, le forme di disagio adolescenziale richiedono un progetto terapeutico articolato, di rete, sia individuale sia di accoglimento sociale.

Gli approcci tradizionali agli interventi di prevenzione e di cura si rivelano spesso inefficaci ad intercettare e ad intervenire sulla nuova realtà del disagio. Molto spesso gli interventi non sono in grado di riconoscere e far leva sugli aspetti positivi ed evolutivi delle nuove identità adolescenziali, e vi è una tendenza alla patologizzazione della modificazione socio-culturale in atto. In Italia è in atto un dibattito vivace tra psicologi, psichiatri e psicoterapeuti che ha come centro il funzionamento – e quindi il senso – delle comunità terapeutiche per i casi borderline. Ovviamente la maggioranza di utenti sono adolescenti o “giovani adulti” (eufemismo che si riferisce appunto all’interminabilità dell’adolescenza). La domanda di senso di queste istituzioni è in qualche modo connessa anche alle modificazioni che si vanno producendo nelle soggettività degli utenti stessi, come altra faccia della medaglia.

Ribaltando la prospettiva che osserva la relazione tra adolescenza e scienza sull’adolescenza, si può affermare che, in qualche modo, l’adolescenza ha modificato la struttura conoscitiva che la ha osservata. Questo è valido specificamente per ciò che riguarda la lettura che la psicoanalisi ha dato dell’adolescenza.

Le fenomenologie presentate dagli adolescenti – anche, ma non solo da loro – hanno portato gli osservatori a riconsiderare inizialmente il setting della classica cura psicoanalitica, obbligando gli analisti ad una sorta di plasticità riguardo al proprio ruolo e al proprio agire; successivamente a mettere in discussione i presupposti della tecnica e delle teorie di riferimento. Secondo alcuni la “psicoanalisi dell’adolescenza” ha cambiato il paradigma classico della psicoanalisi stessa (Pellizzari G.), producendovi una sorta di rivoluzione epistemologica (Petrella F.). La psicoanalisi, a partire dalle osservazioni innovative che sortivano dallo studio dell’adolescenza, ha mostrato così tutta la sua vivacità e plasticità di fronte ai nuovi stimoli, creando i presupposti per un nuovo modello.

Inoltre, la centralità di questo modello ha posto le basi per una innovazione che non ha riguardato solo il setting psicoterapeutico, ma che si è estesa anche a setting istituzionali. In particolare, il contributo della clinica psicoanalitica risulta prezioso a quanti operano nel campo degli interventi di comunità per la promozione del benessere. Interventi che, proprio perché individuano nei gruppi adolescenziali un target privilegiato, necessitano di parametri teorici di riferimento che consentano all’operatore di inquadrare correttamente le complesse dinamiche attivate dal rapporto con l’utenza adolescenziale [13].

Verrebbe da avanzare un accostamento “audace” che mette a raffronto due realtà molto distanti tra loro.

Come le isteriche dei primi del ‘900 hanno imposto a Sigmund Freud l’identificazione di un paradigma di interpretazione che esulava dagli strumenti della psichiatria di allora – ovvero il concetto di inconscio e quindi la creazione di un paradigma psicodinamico, che andava oltre l’organicismo imperante – così, mutatis mutandis, gli adolescenti contemporanei ci offrono e impongono l’opportunità di una de-costruzione prima del setting di cura e poi dei presupposti teorici che quel setting informava.

E’ questa un’opportunità di ripensamento sul proprio fare da non tralasciare.

Identità ”liquida”

Tutte le fenomenologie che abbiamo fin ora descritto, se collegate, possono portare al riconoscimento di elementi di novità per ciò che riguarda l’identità  dei soggetti portatori di questi fenomeni. Come si diceva all’inizio, sono stati i sociologi a raccogliere gli stimoli di novità e a descriverli in termini di personalità secondo i loro termini: patchwork, a palinsesto, post-moderna, liquida.

Noi vorremmo trasferire queste osservazioni sull’area psi, e invitare i clinici, coloro che si occupano fattualmente di salute, di cura, di presa in carico della sofferenza dei giovani contemporanei, affinché gli strumenti di intervento divengano più efficaci, più coerenti con gli “oggetti mentali” che appartengono agli adolescenti d’oggi. La fluidificazione dell’identità – o della soggettività, se si preferisce -, lungi dall’essere interpretabile come mera patologia, rappresenta anzi una conditio sine qua non per l’adattamento alle mutate esigenze sociali. Ma, inevitabilmente, espone i nuovi soggetti a nuove forme di disagio, e talvolta a forme nosografiche che segnalano questi cambiamenti. La liquidità non riguarda soltanto l’ordine psicopatologico, ma l’intera struttura socio-culturale.

Siamo consapevoli che il termine “adolescenza liquida” – nel suo essere una definizione suggestiva di riflessioni, una descrizione della realtà in trasformazione che ha una validità euristica – non è strumento risolutivo. La sua efficacia operativa è quella appunto di aprire un’area di riflessione che può fare luce su zone della soggettività contemporanea che la ricerca psicoanalitica fa fatica ad accettare come ‘indagabili’, come riconoscibili territori inesplorati. E’ più una definizione per difetto, in quanto non fa riferimento alle possibili cause che la hanno determinata.

La domanda è: quali sono gli apparati sociali e quindi psichici che hanno determinato questa liquidità del soggetto?

 Una postilla metodologica

Le riflessioni qui presentate scaturiscono da una prassi che ha utilizzato – come è nella tradizione del nostro istituto, l’IPRS di Roma – un duplice strumento d’indagine: la ricerca psico-sociologica e la riflessione che parte dalla clinica psicoanalitica. L’uso di uno sguardo ‘bioculare’ – l’occhio sociologico e quello clinico-psicoanalitico – è strumento prezioso per poter cogliere la tridimensionalità del fenomeno adolescenza contemporanea. Lo sguardo sociologico è storicamente attento ai segnali di novità fino, talvolta, a enfatizzarli a tal punto da “inventare il nuovo che avanza”, fino a costruire fenomenologie che non appartengono all’ordine del reale.

D’altro canto, è vero talvolta che lo sguardo clinico – per sue caratteristiche strutturali, come ad esempio il suo operare entro la ‘torre d’avorio’ dello studio psicoanalitico – è strutturalmente impedito a dismettere le strutture interpretative della realtà che la sua teoria di riferimento gli ha consegnato, creando così una sorta di allucinazione negativa che gli impedisce di riconoscere gli aspetti di novità che i soggetti, nella stanza d’analisi, continuano a manifestare senza alcun effetto sull’ascoltatore.

Grazie ad un lavoro di riformulazione teorica che è stato portato avanti da Sandro Gindro, il fondatore dell’IPRS, e centrato sul concetto di inconscio sociale (Gindro S., 1993), a noi sembra di poter vedere la tridimensionalità dei giovani contemporanei, senza lo schiacciamento sia sociologico sia psicopatologico.

In un recente e stimolante saggio sull’adolescenza contemporanea, dal titolo L’ospite inquietante, Umberto Galimberti (2007), riprendendo un altro libro sull’adolescenza dal titolo ancor più suggestivo, L’epoca delle passioni tristi (Benasayag M., Schmit G., 2004), sottolinea con forza un aspetto: ciò che caratterizza il disagio adolescenziale contemporaneo è il nichilismo diffuso, ovvero non un fatto riferibile ad una crisi del singolo, magari con evoluzioni nella psicopatologia, ma una crisi della società, un fatto che riguarda la cultura collettiva e non il soggetto. Senza dubbio Galimberti, il quale oltre che filosofo attento ai fenomeni sociali è anche psicoanalista, coglie un aspetto veritiero – la crisi culturale che investe la cognizione del mondo degli adolescenti – e sottolinea la necessità di rendere consapevoli di questa crisi culturale gli operatori psi, che rischiano di travisare l’osservato per carenza di strumenti osservativi. Egli ci dice che essi sono disarmati di fronte al fenomeno culturale. La presa in cura dell’adolescenza non è affare che può riguardare loro, visto che si tratta di crisi culturale e non di psicopatologia. Un punto non ci è chiaro: sembrerebbe che, dalla sua esposizione, un soggetto portatore di un disagio o di un sintomo psicopatologico – che sia depressione, crisi di panico, comportamento dissociale, e così via –  debba essere considerato o come crisi individuale o come crisi della cultura in cui il soggetto è accolto. Non ci è chiaro l’aut/aut.

 E’ possibile leggere gli accadimenti di un soggetto singolo senza contestualizzarli in uno scenario culturale? E’ possibile leggere il senso di una cultura senza fare riferimento a soggetti singoli?

Affrontare le modificazioni indotte sulle soggettività adolescenziali dalle recenti trasformazioni socio-culturali – che si faccia nel chiuso di uno studio psicoanalitico oppure ‘sul campo’ in un’indagine sociale – significa anche e sempre andare ad esplorare un’interzona tra il cosiddetto “disagio della normalità” e la psicopatologia franca.

Di una cosa siamo certi: c’è bisogno di uno “psicoanalista sociale”.

 L’IPRS e la ricerca clinica sull’adolescenza

In ultimo vorrei ricostruire la traccia di una riflessione sulla clinica dell’adolescenza contemporanea che l’IPRS sta portando avanti ormai da molti anni. Le riflessioni che seguono, quindi, riprendono alcuni passaggi dell’esposizione precedente, rivisitandole in chiave clinica, ovvero centrando l’attenzione sulle valenze di ‘diagnosi’ e di ‘terapia’ del disagio adolescenziale così come possono essere percepite da un terapeuta nello svolgimento del suo mestiere.

Come abbiamo già segnalato (paragrafo La  presentificazione del tempo vissuto) l’adolescenza, nella società contemporanea, se da un lato ha subìto una sua dilatazione progressiva – fino a divenire una sorta di fase interminabile, con la conseguente “adolescentizzazione” della personalità adulta – dall’altro ha attratto già da molti anni l’attenzione degli psicopatologi, e specificatamente degli psicoanalisti, non solo come momento di scansione tra infanzia e adultità, ma tra personalità ‘sana’ e struttura di personalità psicopatologica. Come si è detto, le fenomenologie presentate dagli adolescenti hanno portato gli osservatori a riconsiderare i presupposti delle teorie di riferimento: la “psicoanalisi dell’adolescenza” ha cambiato il paradigma classico della psicoanalisi stessa (G. Pellizzari), producendovi una sorta di rivoluzione epistemologica (F. Petrella).

L’affermarsi e il diffondersi delle diagnosi di Disturbo Narcisistico di Personalità (H. Kohut) e di Borderline (O. Kernberg) – con le loro tematiche, tipicamente adolescenziali, di conflitto dialettico tra identità e alterità – ha esteso alla vita adulta l’impossibilità di svincolo dall’adolescenza. Di lì in avanti la pacifica scansione psicopatologica nevrosi/psicosi non è stata più euristicamente utile. La progressiva ‘adolescentizzazione’ della psicopatologia ha sparigliato le carte.

Come se – in conseguenza dell’affermarsi della specificità del vissuto adolescenziale con le sue componenti narcisistiche e di urgenza individualistica – si aggiungesse tra le due entità nosografiche di nevrosi e psicosi una terza, intermedia, che potremmo definire di normosi (Ch. Bollas) in quanto, seppur connotata da elementi di sofferenza e di incapacità a gestire la relazione con il mondo circostante, è coerente con le attese – spesso perverse – dell’ambiente sociale circostante. Al soggetto si offre la possibilità di trovare una qualche soddisfazione o appagamento delle sue istanze desideranti senza per questo dover usare il pensiero critico, il giudizio, la riflessione etica ed estetica su di sé e su ciò che si sta facendo, ma mirando più semplicemente al ‘consumo’ dell’esperienza gratificante. L’attività di pensiero – che darwinianamente è strumento di adattamento alla realtà e quindi di ricerca di soddisfazione del desiderio e di raggiungimento della meta pulsionale – sembra essere divenuta una funzione inessenziale e superflua se non dannosa.

Semi a questo proposito scrive: “quanti individui pensanti autonomamente, soggettificati per quel che è possibile, può tollerare la nostra cultura? (…) Da tempo mi sto interessando alla decoscientizzazione, alla tendenza ad usare sempre meno il pensiero intellettuale cosciente e sempre più il pensiero preconscio”(A. A. Semi, 2006).

Per dirla con le parole di Sandro Gindro, sembrerebbe che vi sia una sorta di sopraffazione del desiderio del piacere a discapito del piacere del desiderio, ovvero di quella attività umana che mira ad una elaborazione del desiderio individuale, ad un suo dispiegarsi in un tempo di elaborazione, per renderlo compatibile e condiviso con l’altro, con il contesto sociale. “Nell’attesa in cui sorge e si distende il desiderio nasce il nostro bisogno di inventarci il tempo. Il tempo misura la durata del desiderio (…) In questa temporale estensione del desiderio sorge il teatro della cultura: tempo e cultura, tempo e arte coincidono. La rappresentazione desiderante non coincide con la pulsione desiderante, ma le si sovrappone (…) Il tempo è il senso della rappresentazione. La rappresentazione desiderante si sovrappone al desiderio, non ne è assolutamente in contrasto: potrei dire che è un desiderio che si sovrappone ad un altro desiderio” (Gindro S., 1979).

Il desiderio del piacere è quindi, in questa prospettiva, una parte di un insieme che comporta anche il piacere del desiderio. La cultura, la civiltà, il pensiero, non sono altro che una via per trovare soddisfacimento ai propri desideri. La dialettica vitale si sviluppa lungo l’asse desiderio del piacere-piacere del desiderio e la mancanza della soddisfazione immediata, la sospensione, lo stato di bisogno, non è spiacevole in sé, ma anzi è il tempo entro il quale si dà spessore al desiderio, gli si dà un contenuto preciso, una forma che amplifica il piacere che verrà. Il desiderare, l’attendere, il fantasticare il godimento, è pensiero che dà ‘cultura’ al desiderio, forma elevata di godimento dell’animale uomo.

Sembrerebbe quindi che questa funzione di ‘umanizzazione’ del desiderio stia perdendo terreno a favore di una sorta di ricerca a corto-circuito del godimento.

A noi sembra che questa tendenza sia particolarmente presente tra gli adolescenti, ma non caratteristica specifica dell’adolescenza. Gli adolescenti sono semplicemente la categoria umana che segnala con particolare evidenza questa tendenza diffusa nella nostra cultura. La loro caratteristica di presentificazione del tempo vissuto – per usare la terminologia di A. Cavalli – può essere quindi letta come presentificazione del “tempo del desiderio”.

Questa è, sommariamente e sinteticamente, un tentativo di descrizione ‘diagnostica’, sincretica, del vissuto adolescenziale contemporaneo. Proviamo ora ad ipotizzare un approfondimento del piano di osservazione diacronico, di ricostruire cioè i precursori che lo hanno determinato. Per usare una forma espressiva forte: tentare di identificarne le cause per poter intervenire terapeuticamente su di esse.

La domanda è: quali sono le cause che, ipoteticamente, hanno prodotto il fenomeno?

Molti sono i tagli interpretativi che possono tentare l’esplicazione del fenomeno. A noi sembra che un modo per dar senso/comprensione al fenomeno sia quello – molto semplice e apparentemente banale – di collegare le “nuove soggettività” adolescenziali a quegli organizzatori che le precedono temporalmente e che le hanno ‘generate’. Stiamo parlando ovviamente delle famiglie.

Se ad un’osservazione superficiale alcuni stili di vita e di comportamento degli adolescenti appaiono come incomprensibili, estranei, fuori norma e insensati, appena si approfondisce l’osservazione questi ragazzi appaiono come l’ovvia conseguenza delle famiglie che li hanno generati, non solo biologicamente ma culturalmente. Ciò che caratterizza l’adolescenza è soltanto l’aspetto di maggior evidenza, di estremizzazione talvolta provocatoria, di macroscopizzazione di alcune contraddizioni che albergano dentro le mura domestiche, e in particolare all’interno dei ruoli genitoriali.

Forse si può dire che sono le “famiglie disordinate” – così le definiscono J. Derrida e E. Roudinesco in Quale domani?, un libro-dialogo sul presente/futuro di cui la psicoanalisi dovrebbe cogliere il senso – la chiave di volta  per una possibile esplicazione di quello che noi abbiamo definito l’adolescenza “liquida”. E’ nella destrutturazione dei contenitori socio-affettivi, e in particolare nei cambiamenti dei ruoli genitoriali – nelle imago di mamma e papà – che bisogna andare a ricercare il senso. Sono loro i primi soggetti che propongono – o impongono – le categorie fondamentali, le norme e i valori (principi di bello/brutto, buono/cattivo, piacevole/spiacevole). Derrida, nel testo citato, afferma: “mi domando prima di tutto in che modo (e se) il modello familiare – punto di riferimento imprescindibile e fondante per la teoria psicoanalitica – sarà in grado, trasformandosi, di trasformare a sua volta la psicoanalisi. Per Freud e per i suoi successori, compreso Lacan, la teoria edipica presuppone un modello fisso: l’identità stabile del padre e della madre. E in particolare l’identità di una madre ritenuta insostituibile (…) A un certo punto sarà l’approccio psicoanalitico tipico di questa cultura che dovrà essere caratterizzato da quel movimento stesso che mette in crisi il modello familiare. Questo mutamento della psicoanalisi dovrebbe d’altronde corrispondere a ciò che essa stessa considera come la propria missione essenziale: prendersi cura innanzitutto di ciò che, direttamente o no, riguarda il modello familiare e le sue norme. La psicoanalisi ha voluto sempre essere una psicoanalisi delle famiglie” (J. Derrida, E. Roudinesco, 2004).

Questo ci porta ad interrogare Sigmund Freud e la teoria psicoanalitica, che, indiscutibilmente, è stata uno dei supporti concettuali fondamentali nel costituire il moderno concetto di origine della psicopatologia. E’ appunto nell’avant-coup dell’edipo – o del pre-edipico – che si è dato senso all’apres-coup del sintomo e della malattia. Metter mano al Complesso di Edipo è operazione rischiosa, da compiere con estrema cautela, ma è allo stesso tempo operazione necessaria se si vuole dare nuova vitalità alla lettera freudiana. Il ‘luogo’ per eccellenza della teoria freudiana è la psicosessualità (Sexualtheorie), la quale ha trovato la sua origine nella dialettica figlio-madre- padre, e il suo centro nel Complesso di Edipo. Di lì sono originate tutte le teorizzazioni seguenti, fino ai recenti modelli di attaccamento, relazioni oggettuali, interiorizzazione delle relazioni bambino-caregiver. Quella descrizione ci racconta appunto la nascita psichica dell’essere umano come essere di relazione.

I teorici freudiani – forse più di Sigmund Freud stesso – hanno poi ritenuto di poter generalizzare la validità delle sue osservazioni, ritenendo fossero considerabili “universali”, applicabili in modo invariante a tutte le realtà umane storicamente determinate. Di qui sono nate le confutazioni e le contrapposizioni (ad esempio di Bronislaw Malinowski) che hanno – tra l’altro – trasformato la teoria e la prassi psicoanalitica fino alle più recenti teorizzazioni dell’etno-psicoanalisi (si consideri ad esempio l’asse Georges Devereux-Tobie Natan), con le straordinarie modificazioni strutturali indotte sulla tecnica ed il setting dell’intervento di cura.

La nostra ipotesi – meglio dire il nostro territorio da esplorare – per trovare una comprensione/esplicazione delle nuove identità adolescenziali, è fare riferimento al principale background socio-affettivo che li ha prodotti, ovvero le loro famiglie.  E’ lì – in quelle famiglie che hanno subìto e prodotto delle trasformazioni straordinarie negli ultimi decenni – che si può ritrovare il filo d’Arianna in grado di dare un nuovo senso ai fenomeni in trasformazione.

Il ‘nuovo’ adolescente è – anche ma non soltanto, ovviamente –  l’ovvio prodotto delle ‘nuove’ famiglie, e più in particolare di quelle imago genitoriali che hanno subìto – nel bene e nel male – delle trasformazioni talmente radicali e drammatiche da non essere più socialmente e culturalmente riconoscibili. I ruoli genitoriali sono già, di fatto, trasformati e talvolta ribaltati, ma questa trasformazione non è ancora stata accolta e ‘istituzionalizzata’ nel tessuto sociale e culturale.

L’adolescente non sa più “chi è” il padre e “chi è” la madre, quali siano i loro ruoli, le loro funzioni e il senso delle norme che più o meno implicitamente sono da loro proposte. Il disorientamento che ne consegue non può non avere ripercussioni nella percezione di sé e della propria collocazione sociale.

Questo ci sembra un territorio verso il quale anche gli psicoanalisti dovrebbero rivolgere lo sguardo.

La psicoanalisi, nel suo essere teoria sociale e strumento di interpretazione del soggetto, ci offre l’opportunità di un doppio sguardo che collega radicalmente il soggetto allo scenario sociale e culturale in trasformazione. E se si scoprirà che qualcosa è cambiato nel “recinto” edipico, ciò non farà crollare l’edificio teorico della psicoanalisi. Come ci ricorda Fausto Petrella, l’inconscio non è più considerato zeitlos, un dispositivo psicobiologico fuori dal tempo, invariante, caratterizzato dall’inerzia assoluta, e anche l’Edipo può essere indagato per poter dare luce ai fatti emergenti che caratterizzano gli scenari contemporanei (Petrella F., 2006).

La domanda che va posta è: cosa è cambiato nell’Edipo degli adolescenti contemporanei? Cosa è cambiato nelle imago di mamma e papà?

Sandro Gindro scriveva così a proposito del Complesso di Edipo: “Sono una conferma della validità dell’intuizione freudiana, assai più di quanto riescano a negarla, gli scritti e i discorsi che tentano di sminuire o confutare l’importanza del significato del complesso di Edipo. La teoria freudiana ha però dei limiti evidenti. Come è raccontata da Freud, la storia di ogni bambino, nell’odio e nell’innamoramento verso la coppia dei genitori, è riferibile ad una realtà estremamente circoscritta. Emblematico non è tanto Edipo quanto il piccolo Hans.

Sarebbe forse più giusto sostituire la definizione ‘Complesso di Edipo’ con quella di ‘Complesso di Hans’. Hans è un bambino dell’epoca di Freud, che vive a Vienna, in una famiglia piccolo-borghese: madre e padre tipici, domestici, villeggiature e carrozze. La madre dice quello che dicevano le madri di quella classe sociale all’inizio del ‘900; il padre ha l’atteggiamento dei padri di quell’epoca verso i figli maschi, in una Vienna arabescata dal Secessionismo e serenamente in crisi” (S. Gindro, 1983). E, più avanti, aggiunge: “Il desiderio sessuale è, credo, universale, così come la dipendenza del piccolo dell’uomo dall’adulto; perciò finché il mammifero uomo alleverà la prole attraverso il contatto diretto e così stretto con il corpo dell’adulto, i desideri sessuali, innamoramenti e gelosie, se pur seguiranno dinamiche diverse a seconda delle culture e della classe sociale, turberanno e animeranno la vita di ogni bambino. Freud ha iniziato un’indagine apponendovi come simbolo il figlio di Laio e Giocasta; ma il mito di Edipo è molto più articolato e contraddittorio di quanto egli supponesse” (ibidem).

La nostra attenzione si ferma su un aspetto specifico del fenomeno, ovvero sugli effetti che i nuovi ruoli genitoriali stanno producendo sull’organizzazione identitaria dei figli partoriti in senso psico-sociale da quelle famiglie, con una particolare attenzione a quell’età che chiamiamo adolescenza, ovvero nel momento in cui i soggetti sono chiamati ad affrancarsi dalla famiglia d’origine e aprirsi alla vita sociale.

Ma siamo consapevoli che il fenomeno è più ampio, che richiede ipotesi di risposta variegate e articolate.

E’ possibile identificare un paradigma, un caso paradigmatico quale è stato per Sigmund Freud il piccolo Hans, che possa dare un’esemplificazione ed esplicazione dei cambiamenti intervenuti nella famiglia contemporanea, e che quindi contribuisca a dare comprensibilità a quelle che noi siamo abituati a definire “nuove soggettività”? [14]

NOTE:
[1] Il presente articolo è la rielaborazione del testo pubblicato in A. Casoni, (a cura di), Adolescenza liquida. Nuove identità e nuove forme di cura, EDUP Roma 2008

[2] L’IPRS ha svolto una ricerca a livello nazionale dal titolo Il disagio degli adolescenti. Valutare gli interventi, valutare le politiche, commissionata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2006, dove si sottolinea quest’aspetto di rischio nel valutare le politiche di intervento sugli adolescenti (la ricerca è disponibile in: www.iprs.it)

[3]Molto gli psicoanalisti si sono occupati dei rischi di estraneamento, omologazione, perdita di senso del soggetto di fronte ai compiti “evolutivi”, di confronto con la realtà oggettiva senza la rinuncia a quell’ “appercezione creativa” che deve caratterizzare un rapporto benefico con il reale. In sintesi, della “patologia normotica”, come la definisce Bollas. Cfr. Bollas C., L’ombra dell’oggetto, Borla 1999; Gindro S., Luci ed ombre sul progetto di uomo in L’adolescenza. Gli anni difficili. cit.

[4] Per brevità non posso qui sintetizzare la teoria freudiana sulla Sexualtheorie, ma la do per scontata.

[5] U. Beck parla di “seconda modernità”, in un’accezione simile.

[6] Della sconfinata attività editoriale di Z. Bauman segnaliamo: Paura liquida, Laterza 2008; Vita liquida, Laterza 2008; Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza 2007; Il disagio della modernità, B. Mondatori 2007; Amore liquido, Laterza 2006; Modernità liquida, Laterza 2003.

[7] M. Recalcati, in Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri 2007, propone una lettura di una nuova forma di rischio totalitario, di tipo “post-ideologico”, come conseguenza della crisi delle c.d. ideologie.

[8] Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si interrogano gli insegnanti delle scuole medie, inferiori e superiori, che spessissimo segnalano la “rarefazione” familiare e i disordini conseguenti nel rendimento dei figli. Sul fenomeno dei “drop-out” l’IPRS porta avanti da tempo un’attività di ricerca e intervento.

[9] Nel convegno che l’IPRS ha organizzato a Roma il 23-24 maggio 2008, dal titolo Il complesso del piccolo Hans. Quali cambiamenti nelle costellazioni edipiche contemporanee? Si trattò appunto di questi temi. Dal convegno sortì un omonimo libro (Casoni A. 2010).

[10] I brani sono tratti da Il disagio degli adolescenti. Valutare gli interventi, valutare le politiche, ricerca a livello nazionale che l’IPRS ha svolto su commissione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel 2006

[11] R. Grassi, nel saggio presente nel volume, ci presenta una sintesi del nuovo rapporto IARD 2007.

[12] E’ pregevole il lavoro di riflessione ‘a tutto campo’ prodotto in: G. Ardrizzo, a cura di, L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, Meltemi 2003.

[13] E’ da sottolineare il lavoro pionieristico di A. Novelletto sugli interventi clinici e istituzionali di impostazione psicoanalitica rivolti agli adolescenti, che ha aperto una riflessione che si va arricchendo in questi anni, con l’acutizzarsi di questa sorta di ‘allarme’ adolescenza.

[14] Questo è stato il tema del convegno e libro successivi, (Casoni A., 2010) sulle famiglie contemporanee con figli adolescenti.