Il suicidio in adolescenza [1]
Adolescenza contemporanea e pensabilità della propria morte
Abstract
La riflessione sul suicidio di un adolescente, e sulla pensabilità della propria morte per quel soggetto, ci porta alla storia del pensiero della morte in Occidente, da Epicuro a Heidegger, per arrivare a Freud e la pulsione di morte. Ciò che caratterizza il pensiero del suicidio per l’adolescente è la fantasia di un’andata-ritorno, di un’assenza di irreversibilità per quel gesto, compiuto allo scopo di donare senso alla sua ‘non-vita’. Dietro a quel gesto vi è un’esistenza che non trova un tempo entro il quale poter distendere il desiderio, il pensiero desiderante. Perché il suicidio è un fatto così frequente in adolescenza, e perché le statistiche ci segnalano che è un fenomeno sociale in crescita? La risposta possibile è: perché anche la morte può essere ‘consumata’ in un gesto che non comporta pensiero, che è reversibile, recuperabile come ogni altro ‘oggetto’.
La morale dentro ognuno di noi e il cielo stellato sopra di noi sono due principi esistenziali inconoscibili ed inevitabili. L’uomo non ha tardato a riconoscersi in seguito in Kierkegaard e nella sua angoscia esistenziale e poi nell’assurdo di Heidegger e Sartre. [2]
1. Pensare la morte?
Colui che si da la morte compie sempre il gesto scandaloso per eccellenza. Chi vi partecipa da ‘spettatore’ è inevitabilmente risucchiato da emozioni e pensieri inconoscibili, assurdi e inevitabili. E non basta la sofferenza e l’angoscia a darne una giustificazione. La scelta della morte, sia essa risolta in un gesto ‘fallito’ o ‘portato a termine’, nella sua estrema drammaticità ci induce sempre e comunque un’emozione lacerante, un sentimento scandalizzato. Colui che vi è partecipe, per quanto possa cercare di governare la propria reazione emotiva, inevitabilmente reagisce con indignazione: quel soggetto ha compiuto il gesto più proibito che esista, ciò che non deve essere fatto, che non si deve neanche pensare, che non è neanche pensabile. Colpendo se stesso ha ferito noi. Il dubbio che ci viene instillato da quel gesto è che, se lui lo ha fatto, lo ha forse potuto pensare, quindi anch’io lo posso pensare e fare.
Il gesto suicidario ci pone quindi di fronte al dilemma riguardo alla pensabilità della propria morte.
Spesso, in ambito psi, si sente dire che i suicidi “riusciti” sono semplicemente dei tentati suicidi dimostrativi falliti: non si voleva morire realmente. Ovvero, ci si riferisce all’impossibilità di poter pensare di fatto alla propria irreversibile sparizione: quel soggetto ha fantasticato in qualche modo un dopo, una rinascita, un’uscita dall’angoscia, un cambiamento del proprio scenario di vita, la risoluzione dei propri conflitti-dolori-disperazioni, la realizzazione di vendette, la rigenerazione miracolosa di un amore perduto. All’origine del gesto estremo vi è sempre una fantasia che riguarda il vivere. Potremmo quindi pensare in compagnia di Epicuro che “quando ci siamo noi la morte non c’è; e quando c’è la morte noi non ci siamo”[3]. Oppure concordare con L. Wittgenstein quando scrive: “La morte non è un evento della vita: non si vive la morte”[4].
Quindi la morte non è pensabile?
Il tema della morte nella nostra cultura è stato affrontato magistralmente, in una prospettiva storica, da Philippe Ariès [5]. In Storia della morte in Occidente egli ricostruisce, dal Medioevo a oggi, una linea trasformativa del rapporto che i soggetti avevano con l’evento morte, caratterizzata da una progressiva sparizione culturale della morte stessa. Se nel Medioevo essa era “addomesticata”, un fatto che rientrava nella gestione quotidiana della vita, che avveniva “nel proprio letto” e davanti alla comunità secondo una ritualità partecipata, progressivamente viene allontanata dalla vita civile (le tombe vanno fuori dall’abitato, per ragioni igieniche), avviene lontano negli ospedali, diviene anonima, poi, con il XIX secolo, diviene un tabù di cui non si deve parlare e in ultimo un fatto “proibito”, eliminato da un processo artificiale che è agito attraverso l’interruzione delle cure decisa dall’equipe medica.
Quindi la morte, seppur lo era mille anni fa, non è pensabile per l’uomo contemporaneo?
Eppure, il tema della possibilità di pensare la propria morte è uno degli argomenti che hanno investito nel XX secolo la storia delle idee e quella della filosofia e psicoanalisi in particolare.
La tradizione fenomenologico-esistenzialista pone appunto il non-essere, il nulla, l’esperienza della morte come lo svincolo attorno al quale costruire ciò che è definita da Martin Heidegger la vita “autentica”. La sostanza dell’essere umano è appunto definita dal filosofo come un essere-per-la-morte (Sein zum Tode). La morte nel suo rendersi angoscia è l’evento che grava su di noi fin dalla nascita come «la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci»[6]. Soltanto nel riconoscere la possibilità della morte, nell’assumerla su di sé con una decisione anticipatrice, l’uomo ritrova il suo essere autentico[7].
Quindi la morte è pensabile attraverso il suo rappresentante dell’angoscia?
Sigmund Freud ci ha abituati al pensiero dell’assenza della morte nell’inconscio, caratterizzato dall’atemporalità e quindi dall’immortalità. I sogni – via regia dell’espressività dell’inconscio – ci introducono alla questione della non rappresentabilità della propria morte, se non attraverso immagini di vita – i sogni del proprio funerale, ad esempio, dove si è spettatore tra gli altri – quindi negandone l’esistenza psichica.
Nonostante ciò, l’edificio teorico freudiano ha avuto il bisogno di riconoscere l’esistenza , a fianco delle pulsioni vitali, della pulsione di morte. Molto si è scritto sulle ragioni che hanno portato Freud ad affermare la “svolta degli anni ‘20” con la sua teorizzazione[8], sul dubbio ruolo che la sua esistenza aveva nelle dinamiche psichiche, sul suo essere un principio prettamente speculativo (metapsicologico) senza effetti sulla pratica clinica, sulle difficoltà che i suoi seguaci hanno avuto nel recepirla come categoria efficace[9]. Freud stesso ha riconosciuto nel ’30 che il concetto di pulsione di morte “… poggia essenzialmente su basi teoriche, bisogna ammettere che essa non è neppure completamente al riparo dalle obiezioni teoriche”[10].
Secondo questa prospettiva si potrebbe affermare che la morte, seppur non rappresentabile, è presente nell’economia dell’essere umano come spinta energetica che tende all’inanimato, all’auto-estinzione. Ciò potrebbe giustificare – nella antica tradizione freudiana che si è posta il tema a partire dalla coazione a ripetere, dal sadomasochismo, dalla resistenza alla guarigione – tutto ciò che ha a che fare con il fallimento del processo di cura, con la (auto)distruttività insita nell’essere umano.
Quindi la pulsione di morte è un ‘contenitore’ nel quale far rientrare tutte le distruttività e tutti i nostri fallimenti terapeutici?
De Masi, in un recente contributo, ci offre una prospettiva originale che provo a sintetizzare: “Edgar Morin (1970) ha fatto opportunamente notare che quando Freud afferma che l’uomo non crede alla propria morte e, dunque, nel suo inconscio è convinto di essere immortale, si presta a essere frainteso (…) Freud non parla tanto di immortalità ma di amortalità, ossia di una sorta di cecità rispetto al trascorrere del tempo della vita (…) L’uomo, al posto della propria morte, si raffigura l’isolamento e la segregazione senza tempo (…) Si tratta dunque di un’angoscia primaria che per Winnicott (1972) costituisce la minaccia di annientamento, l’andare in pezzi (…) Per questo motivo credo che Freud avesse ragione a negare nell’inconscio la presenza della morte reale. Tuttavia, penso anche che, con altrettanta acutezza, Melanie Klein abbia individuato l’esistenza di un’altra morte, che è appunto la morte psichica: la percezione di essere vivi in una condizione di paralisi”[11].
Quindi l’esperienza della morte psichica è presente nell’uomo?
Una possibile uscita dal dilemma posto dalla morte è allora riconoscere nell’essere umano la sua presenza come paura, come paralisi del desiderio, come allontanamento dal principio di vita. Così scrive Sandro Gindro: “Il piacere-amore è la molla della vita. Si tratta però di una pulsione e un sentimento che vengono immediatamente contraddetti e frustrati. Non si può però confondere la violenza che è la reazione a questa frustrazione con la pulsione fondamentale della vita dell’uomo. Il bisogno di sopraffazione è certamente presente negli esseri viventi – nei vegetali e negli animali – ed a maggior ragione nell’uomo; ma esso è proprio il contrario della vita, ne è il principio opposto. Il contrario della vita non è infatti la morte, ma è l’odio. Il sadomasochismo è proprio l’espressione della vendetta che nasce da esso, espressione della prima difesa, alla quale poi seguiranno le altre, a cominciare dal narcisismo”[12]. L’odio, la distruttività che può investire anche se stessi, in quanto rappresentante della morte, esprime una difesa e una vendetta per uno scacco subito dal desiderio di piacere-amore. Non abbiamo bisogno del dualismo dialettico freudiano vita-morte per poter accettare la presenza dell’esperienza della morte. E’ sufficiente riconoscere in noi l’impossibilità del desiderio, l’assurdo: “Questo interrogativo sul senso dell’esistenza non trova risposte esaurienti nella scienza e spesso neppure nella religione. Sta di fatto che l’uomo è, e a un certo punto sa di essere. Allo stesso tempo sa però che potrebbe non essere; ma il non essere non può immaginarlo, anche se lo avverte incombente con la certezza della morte che sopravverrà. Questa certezza pervade la vita di ognuno e si scontra con l’assurda speranza che ciascuno nutre di non dover morire”[13]. Nella visione di Gindro non c’è bisogno del concetto di “pulsione di morte” – del dualismo pulsionale tanto caro a Freud – per riconoscere all’interno dell’attività psichica una dialettica. Il desiderio confligge con la sua negazione, con la frustrazione che gli si oppone.
2. L’adolescente e il suicidio
Le riflessioni e le citazioni finora proposte ci possono aprire uno spazio di pensiero – per quanto è possibile di fronte a un tema scandalosamente assurdo come il nostro – riguardo al tema specifico che ci siamo consegnati: la pensabilità del darsi la morte nell’adolescenza. Come è possibile pensare alla morte in un’età in cui ci si apre al mondo, nel tempo della conquista delle libertà?
L’ipotesi da cui parto e a cui voglio arrivare è che in adolescenza – e in modo particolarmente estremo negli adolescenti contemporanei – il pensiero del suicidio, nella sua elaborazione psichica, abbia dei percorsi specifici, che lo differenziano in parte da quelli dell’adulto.
I dati statistici ci dimostrano che l’esperienza della morte è – in qualche modo – particolarmente presente in adolescenza. Perché?
Osservando le fenomenologie che ci vengono proposte dagli psico-sociologi che indagano i comportamenti e le culture giovanili che segnalano un disagio, ci troviamo di fronte ai cosiddetti “comportamenti a rischio” (Health Risk Behaviors). Stili di guida pericolosi, aggressioni al corpo, uso di alcool e sostanze, condotte sessuali a rischio, disordini alimentari, comportamenti violenti e di bulling[14]. Molti di questi comportamenti sono caratterizzati dalla negazione del pericolo di morte, dall’impossibilità di rendere pensabile il proprio non-essere come esperienza che fa parte del proprio esistere, che ne è il limite negativo. In questa direzione mi sembra particolarmente significativo un fenomeno recentissimo, che ha quasi lanciato una ‘moda’ tra gli adolescenti, il balconing: dopo una notte passata in discoteca, ancora sotto l’effetto di sostanze, i ragazzi si divertono a sfidarsi lanciandosi da un balcone all’altro, o dal secondo piano nella piscina condominiale.
I comportamenti a rischio, e in particolare quelli che riguardano la guida, creano una non soluzione di continuità tra ciò che è riconosciuto dalle statistiche come la prima causa di decesso in adolescenza, gli incidenti stradali, e la seconda, il suicidio. Tra di loro potremmo individuare una zona grigia che penetra nelle due adiacenti, e che riguarda comportamenti di ‘sfida’ nei confronti della propria vita.
Partiamo da una riflessione di P.-C. Racamier[15]: più che nell’adulto l’adolescente si rappresenta il suicidio come un’andata-ritorno, non vi è la percezione dell’irreversibilità della morte. L’autore, sulla base della sua ampia esperienza clinica, parla di suicidosi. Essa è definita come una configurazione psicopatologica coerente, dotata di potenziale suicidario elettivo, ma non melanconico, che diviene un’organizzazione difensiva rigida, organizzata come struttura di personalità. Poiché la suicidosi non si sviluppa come la melanconia a circuito chiuso, essa costituisce una modalità relazionale di difesa massiccia contro qualsiasi vissuto di lutto e qualsiasi attrazione libidica. Non è quindi una malattia, bensì una configurazione psicopatologica, una forma clinica coerente. E’ una strategia di sopravvivenza patologica nella quale il suicidosico tenta paradossalmente di “sopravvivere alla non-vita”[16].
E’ evidente che stiamo parlando di un’entità psicopatologica che ha a che fare con i casi borderline. La suicidosi descritta da Racamier fa venire alla mente un altro neologismo coniato da Christopher Bollas, la normosi[17]. Attorno alle due entità nosografiche tradizionali di nevrosi e psicosi si colloca una terza, intermedia, di normosi che, seppur connotata da elementi di sofferenza e di incapacità a gestire la relazione con il mondo circostante, è coerente con le attese – spesso perverse – dell’ambiente sociale circostante. Al soggetto si offre la possibilità di trovare una qualche soddisfazione o appagamento delle sue istanze desideranti senza per questo dover usare il pensiero critico, il giudizio, la riflessione etica ed estetica su di sé e su ciò che si sta facendo, ma mirando più semplicemente al ‘consumo’ dell’esperienza gratificante. L’attività di pensiero sembra essere divenuta una funzione inessenziale e superflua se non dannosa.
Alberto Semi a questo proposito scrive: “quanti individui pensanti autonomamente, soggettificati per quel che è possibile, può tollerare la nostra cultura? (…) Da tempo mi sto interessando alla decoscientizzazione, alla tendenza ad usare sempre meno il pensiero intellettuale cosciente e sempre più il pensiero preconscio”[18].
Semi, insieme a Bollas, ci segnala che il fenomeno di cui ci si occupa trascende l’individuo per investire l’universo culturale (inconscio sociale) entro il quale egli è inserito. Il soggetto “normale” subisce una tendenza alla deumanizzazione.
Tornando a Racamier, nel tentativo di donare senso alla difficile categoria della ‘non-vita’, provo a proporre una possibile lettura: essa ha la sua radice nell’impossibilità percepita di dispiegare il desiderio di vita in un tempo adeguato. Il desiderare ha il suo luogo nell’attesa, quindi in un possibile futuro. Il soggetto desiderante è proiettato in un futuro che lo soggettifica. Se il futuro non c’è, il soggetto non è. Torniamo a Heidegger e a Essere e tempo.
A proposito di rappresentazione del tempo vissuto nei giovani contemporanei, molti ormai sono gli autori che – da prospettive varie, con strumenti di analisi molteplici e applicazioni a contesti diversi – identificano una sorta di denominatore comune riferito alla modificazione indotta riguardo all’orientamento temporale. Ci si trova di fronte ad una sorta di emergenza innovativa che sta producendo trasformazioni in atto nel sottofondo della collettività, che ancora non è oggetto di attenzione e che bisogna far emergere per darle senso e renderla gestibile[19].
Alessandro Cavalli, sociologo che da tempo studia il fenomeno, sottolinea come per le nuove generazioni non sembra esservi nessun elemento di continuità fra passato, presente e futuro, alcun rilievo da un lato per la dimensione del ricordo, dall’altro lato per quella della progettualità e delle aspettative. Un tratto significativo della cultura giovanile della nostra epoca è quello indicato come “destrutturazione temporale”. Connesso alla destrutturazione temporale è un altro tratto caratteristico della cultura giovanile attuale, designato come “presentificazione”: presentificazione come negazione del futuro e del passato (o comunque come enfatizzazione della dimensione del presente), come “tentativo di arricchire il presente di significatività per sé”[20]. La presentificazione, intesa come tratto caratteristico della cultura giovanile dominante, contribuisce ad una labilità della struttura identitaria. Questo ci porta a riflettere sui processi di costruzione dell’identità tipici della società in cui viviamo, e in particolare di quei soggetti che appartengono alle ultime generazioni. “La prospettiva temporale, intesa come qualità dello spazio di vita inerente il passato di un individuo, il suo presente e futuro psicologici a un momento dato, riassume in sé tutte le caratteristiche dell’esperienza temporale, secondo differenti livelli di realtà. Essa costituisce, dunque, un quadro di riferimento per diverse decisioni comportamentali, che si specifica e si differenzia nel corso dello sviluppo del soggetto rendendolo in grado di apprezzare tutte le sue possibilità di azione oltre i vincoli posti dalla situazione attuale (…) Parlare di prospettiva temporale significa fare riferimento al processo di formazione dei progetti e dei fini, che in parte si strutturano in base ad esigenze individuali e in parte sono dettati dagli obiettivi che la struttura sociale in cui si incanalano i progetti costitutivi di quel piano di vita propone ed obbliga a proporsi sotto forma di motivazione”[21].
Ci troviamo quindi di fronte all’impossibilità di progettare la propria esistenza – affettiva, desiderante, ma anche lavorativa, di relazione – in un tempo sufficientemente lungo da dare senso alla propria identità.
3. Pensare il desiderio
La disperazione è assenza di futuro. Perciò, nella misura in cui la morte è assenza di futuro, la distruzione di ogni futuro, di ogni avvenire, quale che sia o per quanto poco probabile sia, la morte è disperante.
Jankélévitch, Pensare la morte?[22]
Affronto qui la questione del suicidio prendendo come vertice di osservazione la clinica psicoanalitica dell’adolescenza contemporanea, così radicalmente caratterizzata – nella mia prospettiva, che è quella originata dalla teorizzazione di Sandro Gindro – da un disordine del desiderare.
Le riflessioni che seguono non riguardano soltanto il vissuto dell’adolescente, anzi investono la società nel suo insieme, ma identificano nell’adolescente il soggetto dichiarante, colui che con straordinaria evidenza – e nei modi estremi e provocatori che caratterizzano da sempre l’adolescenza – ci dichiara cosa noi siamo. Egli, in quanto ‘straniero interno’, colui che siamo stati e non siamo più, ha qualcosa da mostrarci riguardo al nostro essere.
Il testo a cui faccio riferimento è un libro da me curato nel 2008, “Adolescenza liquida”, dove ho la possibilità di descrivere ciò che qui segnalo appena, facendolo aderire al tema del suicidio[23].
Seguendo la traccia precedente, introduciamoci alla connessione tra Tempo e Desiderio dando voce a Sandro Gindro: “Ho detto che la cultura è rappresentazione, e la rappresentazione è sempre rappresentazione di una lotta fra il bene e il male, i quali non sono altro che il piacere e il dolore. Ho anche detto che questa rappresentazione si realizza negli istanti dell’attesa. La fantasia colma i vuoti apparenti (perché mi sembra abbastanza evidente che non esiste, veramente, il vuoto). Nell’attesa in cui sorge e si distende il desiderio, nasce il nostro bisogno di inventarci il tempo. Il tempo misura la durata del desiderio. L’attesa è sempre un proiettarsi all’esterno. In questo dirigersi, il desiderio aspetta. In questo aspettare sorge il concetto di tempo (…) In questa temporale estensione del desiderio sorge il teatro della cultura: tempo e cultura, tempo e arte, coincidono (…) L’esistenza si inventa il tempo per colmare e placare la tensione del desiderio”[24].
La categoria temporale è presente in un’altra concettualizzazione di Gindro che riguarda il manifestarsi del desiderio. Egli identifica nella dialettica tra due esperienze desideranti il fondamento dell’agire umano: desiderio del piacere e piacere del desiderio[25]. Il primo si riferisce al puro cercare la soddisfazione: ho fame, mangio, sono soddisfatto. Il secondo è ciò che – si potrebbe dire – dà umanità e cultura al desiderio: desidero quella persona, cerco di capire le sue caratteristiche, i suoi gusti, mi coordino al suo desiderio, mi propongo, la ascolto, godo del mio desiderarla, la aspetto creando la situazione di un incontro d’amore. Il tempo diviene il luogo del desiderio. Il desiderare richiede la necessità di rappresentarsi in un tempo entro il quale poter collocare il possibile: il desiderio è una possibilità oltre che una mancanza, che ci espone al rischio del fallimento riguardo al suo soddisfacimento.
Secondo questa prospettiva il piacere del desiderio ha – con apparente paradosso – qualcosa in comune con ciò che caratterizza la morte (Heidegger, “la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci”): la pensabilità della perdita, del fallimento, della sparizione del piacere, della fine. Eppure il desiderio è il generatore della vita.
Desiderare è accettare l’impossibilità possibile e al contempo ‘costruire’ la profondità dell’esperienza di piacere. Il piacere del desiderio è un’esperienza piacevole nonostante l’assenza del soddisfacimento, ne costruisce la profondità. Per usare una metafora evangelica ne è il lievito che darà sostanza e volume al piacere. La mancanza della soddisfazione immediata, la sospensione, lo stato di bisogno, non è spiacevole in sé, ma anzi è il tempo entro il quale si dà spessore al desiderio, gli si dà un contenuto preciso, una forma che amplifica il piacere che verrà. Il desiderare, l’attendere, il fantasticare il godimento, è pensiero che dà ‘cultura’ al desiderio, forma elevata di godimento dell’animale uomo.
Proviamo ora ad applicare queste categorie alle esperienze di vita che caratterizzano la nostra contemporaneità e in particolare a quelle delle ultime generazioni. Molto si è discusso della tendenza al consumo dell’esperienza piacevole, alla sua riduzione a merce negli stili di vita contemporanei. La quantità e la reificazione prendono il posto della profondità dell’esperienza.
Jacques Lacan con il termine discorso del capitalista definisce la tendenza dominante nell’epoca contemporanea (ipermoderna) prodotta dall’esaurimento dei grandi ideali storici. L’affermazione incontrastata del potere del mercato ha generato la desacralizzazione, demitizzazione, depoliticizzazione del soggetto. L’individualismo edonistico ha prodotto un’accelerazione maniacale del tempo, l’esaltazione euforica del presente perpetuo come tempo dell’iperconsumo[26]. Massimo Recalcati sintetizza così: “La credenza che anima il discorso del capitalista è doppia: è credenza che il soggetto sia libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento, inebriato dalla sua avidità di consumo, ma è anche credenza che l’oggetto che causa il desiderio – l’oggetto piccolo (a) nell’algebra lacaniana – posa confondersi con una semplice presenza, con una Cosa, con una montagna di cose”[27]. E più avanti: “La crisi attuale dell’operatività dell’ordine simbolico coincide con la crisi del potere di interdizione, ma anche con la difficoltà della trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, coincide con la capacità degli adulti di fornire una testimonianza su come si possa esistere senza voler suicidarsi o impazzire, sulla capacità di rendere questa esistenza degna di essere vissuta”[28].
L’unica esperienza soddisfacente è quella estemporanea, consumabile in un cortocircuito. L’estemporaneità riduce l’esperienza del desiderio ad oggetti da consumare. Il godimento (jouissance) ha sopraffatto il piacere e mortificato il soggetto[29].
Sembrerebbe quindi che la funzione di ‘umanizzazione’ del desiderio stia perdendo terreno a favore di una sorta di ricerca a corto-circuito del godimento. A noi sembra che questa tendenza sia particolarmente presente tra gli adolescenti, ma non caratteristica specifica dell’adolescenza. Essi sono semplicemente la categoria umana che segnala con particolare evidenza questa tendenza diffusa nella nostra cultura. La loro caratteristica di presentificazione del tempo vissuto – per usare la terminologia di A. Cavalli – può essere quindi letta come presentificazione del ‘tempo del desiderio’.
Nella terminologia di S. Gindro sembrerebbe che vi sia una sopraffazione del desiderio del piacere a discapito del piacere del desiderio, ovvero di quell’attività umana che mira ad una elaborazione del desiderio individuale, ad un suo dispiegarsi in un tempo di elaborazione, per renderlo compatibile e condiviso con l’altro, con il contesto sociale.
Sovrapponendo i due discorsi, di Gindro e di Cavalli – e avendo sullo sfondo la lettura che Lacan ci propone della psicoanalisi freudiana – potremmo giungere a una possibile conclusione: lo scenario socio-culturale che viene offerto agli adolescenti d’oggi ha come caratteristica l’impedimento al dispiegarsi del desiderare in un tempo sufficientemente lungo da collocare un progetto di vita, un’identità sufficientemente radicata nel proprio progetto di vita.
Torniamo ora alla nostra questione: perché il suicidio è un fatto così frequente in adolescenza, e perché le statistiche ci segnalano che è un fenomeno sociale in crescita?
La risposta possibile è: perché anche la morte può essere ‘consumata’ in un gesto che non comporta pensiero, che è reversibile, recuperabile come ogni altro ‘oggetto’.
Questo è stato loro insegnato dai padri.
Per trasporre ciò che andiamo dicendo nei termini di Ernesto De Martino – etnologo e antropologo che ha studiato le culture arcaiche anche riguardo ai riti connessi alla morte, e che ci viene utile ora per comprendere la cultura ipermoderna degli adolescenti – potremmo dire che l’adolescente contemporaneo sperimenta una sorta di “crisi della presenza”, uno spaesamento riguardo al suo essere collocato in un divenire storico e dotato di senso, e vi reagisce attraverso un rito magico di morte che gli potrà far ritrovare il suo senso, il suo desiderio[30].
4. Che fare?
Può essere utile fare qui riferimento a un libro recente sull’adolescenza contemporanea che ha un titolo molto suggestivo: L’epoca delle passioni tristi[31]. Ascoltare questi ragazzi spesso non ci fa pensare all’armamentario psicopatologico, alla diagnosi, ma a un segno visibile della crisi della cultura moderna – post-moderna? iper-moderna? – occidentale[32]. La tristezza che è al fondo della loro esperienza di vita ci riporta a una riflessione che investe la nostra società e la nostra cultura nella sua interezza.
Nel percorso a spirale che io seguo torno quindi al punto iniziale, alla pensabilità della morte, e lo faccio ipotizzando un possibile spunto rispetto alle azioni preventive che il gesto suicidario inevitabilmente ci pone. Che fare?
Abbiamo detto che forse la morte, il nulla, il non-essere non è pensabile o rappresentabile. Abbiamo aggiunto che l’adolescente contemporaneo è stato cresciuto secondo il principio del consumo triste di un piccolo godimento. Quindi, educare alla morte, alla sua irreversibilità, sarebbe una missione impossibile. Qualsiasi campagna di sensibilizzazione in questa direzione sarebbe fallimentare oltre che assurda. Forse inevitabilmente spingerebbe i potenziali suicidi a “fare sul serio”, per dimostrare che si percepisce eroicamente l’irreversibilità del “sacrificio”.
Ma qualcosa possiamo fare per prevenire il suicidio in adolescenza: accompagnare questi ragazzi verso una cultura del desiderio. Se soddisfare le proprie voglie è il corto-circuito al quale sono stati abituati e che ripetono con triste ossessione, è pur vero che si può provare – e insegnare a provare – il desiderio.
La psicoterapia dell’adolescente ci dimostra che ciò è possibile, e neanche così difficile come si potrebbe credere. Questi ragazzi e ragazze non aspettano altro.
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Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1968. 6.4311
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[1] Il presente articolo è stato pubblicato precedentemente in: Formella Z., De Filippo A., (a cura di), Il suicidio in adolescenza: quando una vita deraglia, Alpes Roma 2011, con il titolo “L’ultimo scandalo. Adolescenza contemporanea e pensabilità della propria morte”. (Per gentile concessione)
[2] S. Gindro, Il cielo stellato e la legge morale, Psicoanalisi Contro, 21, 1997, in: www.sandrogindro.it.
[3] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 125
[4] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, 1968, 6.4311
[5] Ph. Ariès, Storia della morte in occidente. Dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli 1978
[6] M. Heidegger, Essere e tempo, Milano 1953
[7] Per ciò che riguarda l’economia complessiva del mio percorso, sottolineo che la linea di continuità che lega la triade Kierkegaard-Heidegger-Sartre è una riflessione sul concetto di Tempo che – tra le sue tre determinazioni di passato presente futuro – identifica nel futuro quella originaria e fondamentale, in quanto “luogo” del possibile. Vedremo a proposito del concetto di desiderio alcune considerazioni correlate.
[8] S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1920, OSF vol. 9, Bollati Boringhieri, 1977
[9] Cfr. J. Laplanche, J-B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, voce: Pulsioni di morte, Laterza 1973
[10] S. Freud, Il disagio della civiltà, 1920, OSF vol. 10, Bollati Boringhieri, 1977, pag. 594
[11] De Masi F., La memoria e la riparazione, in: Centro Psicoanalitico di Roma, Intendere la vita e la morte. Apporti psicoanalitici alle tanatofilie e alle tanatofobie del vivere quotidiano, pag. 35-36, F. Angeli 2010
[12] S. Gindro, L’occasione della Bioetica, Psicoanalisi Contro n° 41, 1999, in: www.sandrogindro.it
[13] S. Gindro, L’oro della psicoanalisi, A. Guida 1993, pag. 28.
[14] C. Sandomenico et alii, Adolescenti oggi. Un’indagine su stili di vita, comportamenti a rischio e percezione del disagio, Edup 2008
[15] P-C. Racamier, S. Taccani, Il lavoro incerto, ovvero la psicodinamica del processo di crisi, CERP 1986
[16] P-C. Racamier, (1993), Corteo Concettuale, CERP 1995
[17] Ch. Bollas, L’ombra dell’oggetto, Borla 1999
[18] Semi A. A., Verso la disumanizzazione?, in Psiche XIV, 1, Il Saggiatore 2006. in: www.spiweb.it
[19] E’ pregevole il lavoro di riflessione “a tutto campo” prodotto in: G. Ardrizzo, a cura di, L’esilio del tempo. Mondo giovanile e dilatazione del presente, Meltemi 2003.
[20] Cavalli A., Il tempo dei giovani, Il Mulino 1985, pag. 134
[21] Ricci Bitti P., Rossi V., Sarchielli G., La prospettiva temporale, F. Angeli 1985, pag. 218
[22] V. Jankélévitch, Pensare la morte?, Cortina, 1995, pag. 23
[23] A. Casoni, (a cura di), Adolescenza liquida. Nuove identità e nuove forme di cura, Edup 2008; cfr. anche: A. Casoni, (a cura di), Il complesso del piccolo Hans. Nuove costellazioni edipiche?, Edup 2010
[24] S. Gindro, Eros e Bios, in: Psicoanalisi Contro, 2, 1, 1979, in: www.sandrogindro.it
[25] S. Gindro, ibidem
[26] J. Lacan, Del discorso del capitalista, in G. Contri, Lacan in Italia, La Salamandra 1978
[27] M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, R. Cortina 2011, pag. 42
[28] M. Recalcati, ibidem, pag. 107. Cfr. anche M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, R. Cortina 2010
[29] J. Lacan, II seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Einaudi 1994
[30] Cfr. De Martino E., Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino, 2000; De Martino E., Sud e magia, Feltrinelli Milano, 1959
[31] Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2004
[32] Umberto Galimberti, citando Nietzsche, legge il disagio adolescenziale contemporaneo secondo il parametro del nichilismo, la negazione di ogni valore, inclusi i concetti di individuo, identità, libertà, senso, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si è nutrita l’età pretecnologica: U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli 2007