I – IL PROGETTO PSYCHCARE: METODOLOGIA E RISULTATI
Le linee di indirizzo per la presa in carico integrata della salute mentale dei migranti forzati contenute nella seconda parte della presente pubblicazione sono state elaborate nell’ambito del progetto PsychCare – Psychiatric Services for Refugees finanziato dalla Open Society Foundations tra le attività del Public Health Program.
In un arco temporale di due anni (10 settembre 2018 – 09 settembre 2020), il progetto sta realizzando un’azione di advocacy partecipata sul tema della tutela della salute mentale dei migranti forzati, con la finalità di migliorare la capacità di presa in carico dei servizi volti a tutelare i segmenti più vulnerabili della popolazione migrante in quattro regioni italiane – Lazio, Lombardia, Campania, Sicilia. I quattro territori sono stati scelti perché particolarmente rappresentativi rispetto alla presenza di migranti forzati, ma anche perché caratterizzati da significativa varietà rispetto all’organizzazione del servizio sanitario e alle risorse territoriali disponibili.
Il tema della tutela del benessere psico-sociale dei migranti e richiedenti asilo in Italia, nonostante alcune esperienze virtuose distribuite sul tutto il territorio nazionale, non ha ricevuto sufficiente attenzione, soprattutto in termini di programmazione dei servizi socio-sanitari. Varie linee guida ministeriali e regionali hanno provato a dare impulso all’attuazione di politiche più adeguate, ma ad oggi con risultati ancora insoddisfacenti. D’altra parte i bisogni di salute specifici e le complessità clinico-terapeutiche rendono questa popolazione, pur numericamente contenuta, degna di un focus particolare. Si deve anche rilevare che gli operatori sociali, specialmente quelli delle strutture di accoglienza, hanno in genere una conoscenza dei servizi territoriali di salute mentale assai meno approfondita di quella che hanno degli altri servizi sanitari: ancora molte sono le incertezze rispetto al loro funzionamento e la loro finalità. Questo non sorprende, specialmente se si tiene conto del fatto che la legge di riforma sanitaria del 1978 non ha ancora trovato in Italia un’applicazione piena e omogenea.
È indubbio che per sostenere le capacità del sistema nazionale di accoglienza di operare in modo efficace in questo ambito è necessario promuovere una crescita culturale del sistema tutto come premessa di un miglioramento a livello metodologico e operativo. Il progetto Psychcare intende dare un contributo promuovendo una riflessione condivisa su come tutelare il benessere psico-sociale dei migranti e richiedenti asilo, specialmente quelli inseriti nel sistema di accoglienza, e come promuovere un maggiore e puntuale coinvolgimento del Sistema Sanitario Nazionale nella presa in carico a livello sanitario in modo di garantire un accesso alle prestazioni più adeguato a su tutti i territori.
L’azione di advocacy complessiva del progetto Psychcare si articola in tre linee di attività distinte ma sinergiche, tutte necessarie per il raggiungimento dell’obiettivo complessivo e pertanto realizzate simultaneamente e funzionali l’una all’altra.
Il punto di partenza per l’azione di advocacy è stato la realizzazione di un assessment dello stato dell’arte rispetto all’accesso dei migranti forzati ai servizi di salute mentale in quattro regioni italiane, rappresentative del panorama nazionale, allo scopo di individuare fragilità, pratiche improprie, ritardi nel sistema, barriere culturali e di altra natura, e possibili risposte a livello locale e nazionale. La ricognizione, i cui risultati sono presentati sinteticamente in questo capitolo, era anche volta ad individuare e valorizzare prassi operative efficaci, di successo, sperimentate nei territori presi in esame.
Contestualmente alla raccolta di informazioni si è avviata una capillare attività di awareness raising, volta a stimolare una riflessione e accrescere la consapevolezza di tutti gli attori sul tema della salute mentale dei migranti forzati. Il progetto ha proceduto a creare una comunità di persone a vario titolo interessate (operatori del servizio sanitario, delle strutture di accoglienza e dei servizi sociali, rappresentati territoriali delle istituzioni…), che hanno partecipato direttamente o indirettamente a tutte le fasi del progetto, dall’identificazione delle criticità all’individuazione di proposte e raccomandazioni.
Il terzo aspetto su cui il progetto è intervenuto è stato il rafforzamento del lavoro di rete tra i diversi stakeholder (networking). A livello locale, il progetto ha rappresentato un’occasione per promuovere il confronto tra i diversi attori impegnati a diverso titolo nell’accoglienza e cura dei migranti forzati, al fine di individuare soluzioni condivise e modelli operativi più adeguati. Allo stesso tempo, sono stati facilitati i contatti e il confronto diretto e indiretto tra tutte le persone coinvolte a livello nazionale, anche attraverso una newsletter periodica contenente aggiornamenti sulle attività di progetto e segnalazioni di iniziative, eventi e pubblicazioni rilevanti. Sui singoli territori, dunque, le attività proposte sono state occasione di capacitazione per i servizi, di consolidamento delle collaborazioni esistenti e di creazione di nuove opportunità. Ma fin da subito il progetto si è proposto di mantenere in tutte le sue fasi uno sguardo più ampio, in modo che il lavoro comune della comunità di stakeholder delle quattro regioni potesse produrre indicazioni utili anche per il miglioramento del sistema nazionale nel suo complesso.
Riteniamo inoltre che l’esito di questo lavoro possa rappresentare un utile contributo anche in una prospettiva europea. Il concetto stesso di protezione internazionale infatti non può non comprendere un’adeguata tutela della salute, inclusa la salute mentale. Per questo motivo sarebbe auspicabile definire linee guida e strategie comuni a livello comunitario anche per tutelare e promuovere la salute mentale dei migranti forzati in tutte le fasi del loro percorso in Europa, dall’arrivo alla loro piena integrazione nelle comunità di accoglienza. I concetti di “vulnerabilità” e di “esigenze specifiche” così come formulati nelle Direttive relative alle procedure di asilo e alle condizioni di accoglienza non sono evidentemente sufficienti per garantire adeguatezza e uniformità nelle risposte ai bisogni dei migranti forzati, con il rischio di escludere dalla protezione e dai percorsi di integrazione proprio le persone che maggiormente necessitano di tutela.
Il sistema di accoglienza italiano
L’Italia ha maturato una lunga esperienza specifica in merito alla tutela della salute mentale dei migranti forzati: nonostante la frammentarietà territoriale e le contraddizioni del sistema di asilo italiano, esperienze, buone pratiche e riflessioni condivise da specialisti e operatori sociali rappresentano un patrimonio a cui l’intera Unione Europea può attingere, pur nelle differenze nazionali rispetto all’organizzazione del sistema di accoglienza, del welfare in generale e del servizio sanitario.
Va sottolineato che il primo anno di attività del Progetto PsychCare è coinciso con un momento di profonda trasformazione nel sistema di accoglienza italiano, in seguito all’entrata in vigore del decreto sicurezza (poi legge 1 dicembre 2018/ n. 132): i richiedenti asilo sono stati esclusi dal sistema di accoglienza SPRAR, riservato ai titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati, ed è stata modificata anche la normativa relativa al rilascio del permesso di soggiorno per protezione umanitaria. Contemporaneamente sono stati rivisti i capitolati relativi ai centri di accoglienza straordinaria (CAS), che accolgono la quasi totalità dei richiedenti asilo, con un rilevante ridimensionamento delle risorse e l’eliminazione di servizi per l’inclusione sociale e di figure professionali, tra cui quella dello psicologo. Il processo di adeguamento degli standard delle strutture di prima accoglienza nella prospettiva di costruire un sistema di accoglienza nazionale unico, che era in corso dal 2014, è stato bruscamente interrotto dai nuovi provvedimenti, di segno opposto. Gli effetti delle nuove disposizioni hanno cominciato ad essere visibili già nei primi mesi del 2019: le reti territoriali sono risultate indebolite e il numero dei migranti rimasti esclusi dalle misure di accoglienza e integrazione è cresciuto, aggravando le situazioni di vulnerabilità sui territori. La riflessione sollecitata dal progetto Psychcare si è inserita in un dibattito avviato da tempo e che ha in qualche misura percorso tutta l’evoluzione dell’accoglienza dei migranti forzati in Italia, da sempre caratterizzata da disomogeneità e contraddizioni .
In questo contesto una delicatezza particolare ha la definizione del ruolo e della responsabilità del sistema di accoglienza quando le persone accolte sono portatrici di sofferenza psichica. La riflessione avviata in seno allo SPRAR a partire dal 2008, che poteva essere riassunta nel principio di assicurare in tali casi “percorsi dedicati e specifici, ma non separati”, ha indicato alcuni spunti di metodo importanti, ma ha anche nel tempo ingenerato un parziale equivoco rispetto alla funzione di posti o strutture dedicati all’accoglienza di migranti forzati portatori di disagio mentale. La palese inadeguatezza dei CAS ad assicurare condizioni di accoglienza adeguate ai bisogni specifici in tal senso, il ruolo più marginale dei Comuni e il coinvolgimento sempre più limitato delle aziende sanitarie territoriali nella gestione dei centri, hanno creato la diffusa sensazione tra gli operatori che ci sia la necessità di creare “più posti dove trasferire le persone problematiche”. Pur non essendo questo lo spirito con cui lo SPRAR aveva affrontato la questione, il fatto che l’accoglienza SPRAR dedicata a persone portatrici di specifiche vulnerabilità (quali persone disabili o con problemi di salute fisica e mentale) sia sempre rimasta numericamente e geograficamente molto limitata ha reso di fatto insostenibile una piena applicazione della metodologia indicata. Oggi, alla luce della scelta di non creare un sistema di accoglienza unico, il tema della salute mentale di ospiti e operatori delle strutture di accoglienza si pone con particolare urgenza.
La trasformazione del contesto appena delineata ha reso ancora più urgente e necessario il cambiamento che il progetto Psychcare si propone di promuovere: una trasformazione prima di tutto culturale, che restituisca priorità alla promozione della salute mentale di migranti e operatori sociali attraverso un più corretto riconoscimento delle responsabilità di tutti gli stakeholder coinvolti.
Le attività del progetto Psychcare
La programmazione del progetto Psychcare ha distinto cronologicamente tre fasi di attività che hanno avuto tutte come denominatore comune la tensione verso la ricerca di una visione condivisa sul tema della tutela della salute dei migranti forzati e di un accordo sulla necessità che si avvii una riflessione a più voci che indirizzi l’azione in questo ambito:
- ricognizione/assessment (settembre 2018-settembre 2019);
- analisi e prima stesura delle linee di indirizzo (settembre 2019-febbraio 2020);
- costruzione del consenso, rafforzamento delle reti territoriali e validazione delle linee di indirizzo (febbraio 2020-giugno 2020).
La metodologia che meglio si prestava all’esigenza di perseguire simultaneamente i diversi obiettivi del progetto Psychcare era quella della ricerca-azione partecipata (PAR Partecipatory Action Research), “un’indagine sistematica svolta in collaborazione con i soggetti coinvolti in un problema […] per un’azione volta al cambiamento” . Il gruppo degli stakeholder via via individuati hanno pertanto partecipato, nelle modalità qui descritte, a identificare le criticità, a raccogliere informazioni utili, a riflettere e analizzare gli elementi raccolti per formulare proposte di miglioramento. Inoltre, nell’ambito della ricognizione, i ricercatori hanno avuto la possibilità di visitare luoghi e servizi e anche di essere testimoni attivi di alcuni progetti specifici relativi alla salute mentale dei migranti forzati.
1. La ricognizione/assessment
Nella prima fase del progetto si è proceduto a contattare e incontrare un numero significativo di stakeholder nelle quattro regioni individuate. L’attività di assessment aveva un duplice obiettivo: da un lato, cogliere le fragilità del sistema in una prospettiva locale e nazionale; dall’altro, raccogliere informazioni rispetto alle buone pratiche esistenti sui territori, mettendone a fuoco punti di forza e elementi di replicabilità. L’approccio metodologico scelto per realizzare la ricognizione è stato quello dell’indagine qualitativa.
L’ascolto degli attori territoriali più direttamente coinvolti nell’accoglienza e nella cura dei migranti forzati ha anche permesso in alcuni casi di acquisire alcune stime quantitative rispetto al bisogno di cura e alla presenza di migranti nelle diverse tipologie di servizio, che hanno però carattere puramente orientativo, non essendo basate su una raccolta sistematica di dati consolidati.
Aver combinato l’azione di awareness raising e di networking con l’attività di ricerca ha consentito l’ascolto in modalità diverse di un’ampia platea di attori: psichiatri, psicologi e assistenti sociali dei servizi territoriali, operatori e psicologi dei centri di accoglienza, operatori e volontari di associazioni e enti del terzo settore attivi nei servizi a migranti forzati, rappresentati delle istituzioni locali.
In considerazione del fatto che proprio nel periodo in cui la rilevazione veniva realizzata si sono verificate, come accennato in premessa, trasformazioni significative del contesto di indagine, si è avuto cura di mantenere nella rilevazione un buon grado flessibilità, per poter intercettare al meglio gli elementi di trasformazione. Si è ritenuto necessario, quindi, dopo alcuni mesi, aggiornare le tracce di intervista utilizzate, ma è stato soprattutto il coinvolgimento degli intervistati nelle fasi successive del progetto che ha consentito di mantenere con alcuni di loro un’interlocuzione aperta e di ridiscutere alcune questioni anche a distanza di tempo dalla prima intervista.
Per la rilevazione si è scelto di utilizzare quattro strumenti tipici dell’indagine qualitativa:
- Snowball sampling. Fin da subito si è rinunciato a costituire un campione di intervistati che avesse una validità statistica, dato che i limiti dell’intervento non consentivano di procedere in tal senso. Del resto, la natura qualitativa della ricognizione suggeriva piuttosto l’adozione di una strategia di sampling su base relazionale. Abbiamo pertanto optato per la tecnica dello snowball sampling: individuato un primo gruppo di persone da intervistare, a partire dagli stakeholder che sui quattro territori oggetto della rilevazione risultavano più esperti e attivi sul tema della salute mentale dei migranti forzati, si è chiesto a ciascuno di essi di indicare altre persone da coinvolgere nella rilevazione.
- Indagine sistematica. Parallelamente, si è proceduto a contattare sistematicamente i responsabili dei Dipartimenti di Salute Mentale dei territori in oggetto, per integrare il punto di vista degli attori più sensibili e impegnati con una prospettiva più rappresentativa del livello di awareness effettivo dei servizi.
- Intervista semi-strutturata one2one, nella modalità face2face quando possibile e in forma di intervista telefonica negli altri casi. Le interviste qualitative sono, come è noto, conversazioni “estese” tra il ricercatore e l’intervistato, durante le quali il ricercatore cerca di ottenere informazioni quanto più dettagliate e approfondite possibili sul tema della ricerca. Al pari delle altre tecniche qualitative, l’obiettivo primario dell’intervista è accedere alla prospettiva del soggetto intervistato, cogliendo le sue categorie concettuali e le sue interpretazioni della realtà. L’intervista semi-strutturata è guidata dall’intervistatore sulla base di uno schema di interrogazione flessibile e non standardizzato e prevede una traccia che riporta gli argomenti che necessariamente devono essere affrontati durante l’intervista. Nonostante la traccia comune, la conduzione dell’intervista può variare sulla base delle risposte date dall’intervistato e sulla base della singola situazione. L’intervistatore, infatti, non può affrontare tematiche non previste dalla traccia ma, a differenza di quanto accade nell’intervista strutturata, può sviluppare alcuni argomenti che nascono spontaneamente nel corso dell’intervista qualora ritenga che tali argomenti siano utili alla comprensione del soggetto intervistato. La traccia dell’intervista semi-strutturata stabilisce insomma una sorta di perimetro entro il quale l’intervistato e l’intervistatore hanno libertà di movimento consentendo a quest’ultimo di trattare tutti gli argomenti necessari ai fini conoscitivi. La traccia di intervista utilizzata nell’ambito della rilevazione del progetto Psychcare, che in caso di interviste telefoniche è stata condivisa con gli intervistati in anticipo rispetto all’appuntamento, è riportata in allegato (Allegato n. 1).
- Focus group. Tale tecnica è una discussione attentamente pianificata, per ottenere informazioni su una specifica area di interesse; si svolge come un’intervista di gruppo guidata da un moderatore che, seguendo una traccia più o meno strutturata, propone stimoli ai partecipanti. Rispetto all’intervista one2one, il focus group ha il vantaggio di consentire l’interazione e il confronto tra soggetti diversi, con la possibilità di far emergere in modo dinamico una rivisitazione critica delle posizioni espresse da ciascuno, nonché di portare alla luce dettagli e prospettive che un singolo intervistato potrebbe trascurare. Il moderatore lancia un tema di discussione e attende che la risposta sia generata dalla discussione di gruppo, quindi dall’interazione e dalle dinamiche che si instaurano tra i partecipanti. Nella rilevazione condotta nell’ambito del progetto Psychcare, questo strumento risultava particolarmente utile anche per cogliere la qualità delle relazioni esistenti tra gli stakeholder territoriali e il loro grado di soddisfazione relativamente alle reciproche interazioni. Ogni focus group ha avuto una durata di 3 ore circa. Le domande stimolo utilizzate dai facilitatori sono state in buona parte definite in base ai dati territoriali e agli spunti raccolti attraverso l’osservazione diretta e le interviste individuali realizzate precedentemente, a partire da una griglia essenziale che riportiamo in allegato. Come nel caso delle interviste semistrutturate, la griglia utilizzata (Allegato n. 2) per i focus group con gli operatori e quella utilizzata per i focus group a cui hanno partecipato esclusivamente migranti sono differenziate e nel secondo caso si è ritenuto opportuno formalizzare alcune indicazioni operative specifiche per i facilitatori, in considerazione della delicatezza degli argomenti trattati e dell’esigenza di garantire il pieno rispetto delle persone coinvolte.
Come si vedrà dalla tabella che segue, sono stati coinvolti a diverso titolo nella rilevazione un totale di 251 persone. Il numero complessivo delle interviste individuali realizzate è stato 79, tra interviste face2face e interviste telefoniche. Il numero complessivo dei partecipanti ai focus group 172. In ciascuna delle quattro regioni sono stati organizzati dai 2 ai 4 focus group, facilitati da psicoanalisti e ricercatori dell’IPRS.
Per quanto attiene alla tipologia di stakeholder coinvolti nella rilevazione, si è voluto mantenere un equilibrio tra rappresentanti del servizio sanitario, operatori sociali e migranti. Per quanto riguarda questi ultimi, si è avuto cura di includere tra gli intervistati persone di nazionalità e genere diverso, in fasi diverse del loro percorso migratorio, utilizzando la modalità più indicata e opportuna e adattando, quando necessario, gli strumenti. Particolarmente rilevante e utile, ai fini della ricognizione, è stata la possibilità di ascoltare anche migranti che, arrivati in Italia da un certo numero di anni, sono oggi coinvolti, in qualità di operatori sociali o di mediatori linguistico-culturali, nel sistema di accoglienza e nei servizi territoriali rivolti ai migranti forzati. La ricognizione ha visto il coinvolgimento diretto di un totale di 86 migranti, tra interviste individuali e focus group. In totale, 5 focus group hanno coinvolto esclusivamente migranti (1 nel Lazio, 2 in Campania, 1 in Lombardia e 1 in Sicilia).
Hanno partecipato alla rilevazione di Psychcare:
• 76 operatori sanitari (44 psichiatri e psicologi del SSN e 32 psicologi di enti gestori di centri di accoglienza CAS e SPRAR/SIPROIMI e di organizzazioni del terzo settore)
• 83 operatori sociali coinvolti nel sistema di accoglienza e in altri servizi per migranti forzati
• 86 migranti
• 6 referenti istituzionali (Comune, Prefettura, Servizio Centrale)
1.1 I risultati della rilevazione
Le disponibilità raccolte rispetto alla realizzazione delle interviste hanno fornito una prima indicazione rispetto al contesto che si intendeva analizzare. Come era atteso, la risposta dei servizi pubblichi è stata nel complesso meno sollecita rispetto a quella degli operatori del terzo settore. Una parte di tale ritardo è imputabile alla necessità degli operatori del servizio pubblico di ottenere autorizzazioni formali prima di poter rilasciare interviste e un’altra certamente al sovraccarico di impegni che grava sugli operatori a causa della nota scarsità di risorse umane. Più in generale, però, già dalla fase del primo contatto è emerso che non tutti i servizi pubblici di salute mentale hanno lo stesso livello di coinvolgimento rispetto al tema specifico: alcuni sono particolarmente attivi, altri dichiarano di non avere alcuna esperienza a riguardo.
Tuttavia, proprio perché si è attivato un confronto con operatori con culture e sensibilità diverse, per definire le linee di indirizzo ci si è basati sulle posizioni condivise e sui punti sui quali si registrava un ampio accordo tra gli intervistati: come si avrà modo di sottolineare più avanti, il confronto avviato nell’ambito delle attività di progetto ha reso evidente quanto sia complesso trovare soluzioni ad alcune specifiche problematiche della presa in carico, specialmente in un contesto percepito da molti intervistati come meno favorevole rispetto al passato.
Dalla ricognizione effettuata è risultato un generalizzato ritardo nell’offerta di una risposta integrata al bisogno di salute mentale dei migranti forzati sui diversi territori interessati dalle attività di progetto, pur nella specificità di ciascun contesto. Tale ritardo, imputabile in larga misura a una generale fatica dei servizi di salute mentale e delle misure di welfare, soggetti entrambi a importanti ridimensionamenti negli anni, naturalmente non esclude che in alcuni contesti specifici si verifichino positive ed efficaci collaborazioni, informali o formalizzate, tra i diversi attori coinvolti nell’accoglienza, nella tutela e nella cura dei migranti forzati. Queste sinergie portano a risultati soddisfacenti soprattutto per quanto riguarda l’emersione precoce e la prevenzione e, in misura più limitata, per la gestione condivisa tra più attori di percorsi di integrazione socio sanitaria.
Purtroppo la sostenibilità di tali interventi è ancora affidata alla possibilità di ottenere finanziamenti mirati. In tutti i territori interessati dall’indagine, una parte significativa delle esperienze e delle prassi positive può essere ricondotta a specifici progetti finanziati con risorse europee (specialmente il Fondo Asilo Migrazione e Integrazione e, prima del 2014, dal Fondo Europeo per i Rifugiati), che hanno coinvolto enti pubblici e del privato sociale in interventi sperimentali per la presa in carico dei richiedenti e titolari di protezione internazionale in condizione di vulnerabilità. Questi progetti hanno rappresentato e continuano a rappresentare occasioni importanti, soprattutto per attingere a risorse aggiuntive e per consolidare collaborazioni tra attori territoriali: d’altra parte, però, gli interventi sono temporanei e si registra una difficoltà a dare continuità nella programmazione ordinaria a modalità di intervento che si sono dimostrate, anche alla luce di sperimentazioni pluriennali, valide e addirittura necessarie per assicurare il servizio (si pensi ad esempio alla mediazione linguistico-culturale).
Le principali criticità relative alla presa in carico dei bisogni di salute mentale dei migranti forzati emerse dalla ricognizione condotta dal progetto Psychcare vengono riassunte nei paragrafi che seguono secondo un’organizzazione che distingue ambiti di complessità diversi, con la consapevolezza che si tratta di una classificazione che risente di alcune approssimazioni e della natura trasversale di taluni aspetti della presa in carico (e.g. l’appropriatezza culturale degli interventi).
Difficoltà relative all’emersione precoce e alla prevenzione
Gli intervistati concordano sul fatto che, in generale, i bisogni di salute mentale dei migranti forzati emergono prevalentemente in forma di acuzie. A fronte di una frequentazione estremamente limitata dei servizi territoriali di salute mentale da parte dei migranti forzati (e, in alcuni territori, da parte dei migranti in genere), molto più frequenti sono le richieste di TSO o di ricovero in SPDC (Servizio psichiatrico per la diagnosi e la cura) per migranti forzati che manifestano crisi di varia natura.
Questo fenomeno si è andato accentuando con la trasformazione del sistema di accoglienza: la concentrazione di migranti forzati in strutture di grandi dimensioni, con una disponibilità di operatori qualificati sempre più ridotta, ostacola di fatto la messa in atto di strategie di emersione precoce del disagio e di prevenzione, che pure si sono rivelate e si rivelano ancora efficaci laddove l’accoglienza ha potuto mantenere degli standard più elevati.
Su tutti i territori è apparso evidente l’impatto negativo delle modifiche intervenute con l’entrata in vigore del decreto sicurezza (poi legge 1 dicembre 2018/ n. 132) sull’organizzazione del sistema di accoglienza e sulla qualità dell’interazione degli enti gestori con i diversi servizi territoriali, inclusi quelli di salute mentale, al punto che non si esclude una futura revisione almeno parziale dei provvedimenti adottati: i nuovi capitolati per la gestione dei CAS, che a dispetto del nome diventano oggi i centri per l’accoglienza ordinaria dei richiedenti asilo, risultano particolarmente inadeguati rispetto alla dotazione finanziaria e alla tipologia di servizi previsti, pur ridotti a quelli essenziali. Anche laddove si era instaurato un buon livello di collaborazione e raccordo tra i servizi territoriali di salute mentale ed i CAS, come ad esempio in Lombardia, oggi tale collaborazione è molto meno agevole in ragione del fatto che dalle équipe delle strutture di accoglienza è stata eliminata la figura dello psicologo e, in generale, per la complessiva riduzione delle risorse. Inoltre in seguito all’introduzione dei nuovi capitolati, molti enti gestori hanno scelto di non continuare a gestire CAS: questo ha comportato la chiusura di molti centri e la ridistribuzione improvvisa di migranti sul territorio (in Sicilia anche da una provincia all’altra), con la conseguente interruzione di qualunque percorso precedentemente avviato.
Alcuni psicologi e psichiatri hanno segnalato inoltre che una parte delle crisi per cui gli operatori dei centri di accoglienza chiedono l’intervento, sono in effetti imputabili a incomprensioni e conflitti, tanto tra ospiti e operatori che tra gli ospiti di una stessa struttura. In un contesto di tensione, con una ridotta disponibilità di mediatori linguistico-culturali, aumentano le possibilità di considerare impropriamente patologici comportamenti riconducibili a reazioni di rabbia, dolore, ansia o frustrazione. D’altra parte invece si corre il rischio di non rilevare sintomi di disagio potenzialmente altrettanto se non più preoccupanti, quali isolamento e perdita di interesse a qualunque attività, perché, specialmente in una grande struttura, passano inosservati.
Più frequentemente rispetto al passato, l’invio ai servizi di persone con disturbi evidenti per cui si richiede un approfondimento psichiatrico e/o psicologico avviene per iniziativa delle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. Questo elemento da un lato testimonia di un’accresciuta sensibilità delle Commissioni; dall’altro tuttavia è un ulteriore elemento che restituisce una scarsa capacità di far emergere precocemente la vulnerabilità dei richiedenti asilo.
Disomogeneità di risposte da parte dei servizi
A parte alcuni specifici servizi che negli anni hanno consolidato una competenza specifica nella cura della salute mentale dei migranti forzati, in virtù di esperienze cliniche maturate negli anni attraverso la costruttiva collaborazione di attori diversi accompagnata da costante riflessione e studio, si riscontra ancora una diffusa difficoltà dei servizi di salute mentale a fornire risposte adeguate ai bisogni di salute di questo specifico target. Soprattutto la mancanza di formazione al lavoro con pazienti di altre culture sembra portare ad errori diagnostici e terapeutici, con rischio elevato di riacutizzazione e/o cronicizzazione delle patologie.
Ad esempio, a Roma, come rilevato anche dalla recente “Indagine sui bisogni sanitari e di salute mentale dei rifugiati e richiedenti asilo ospiti dei centri di accoglienza nel territorio di Roma” (pubblicata nel 2019), sul territorio della Capitale le strutture dedicate (sia pubbliche che private) danno risposte adeguate non solo in termini di competenza specifica, ma anche in termini di prontezza della presa in carico, coordinamento con le strutture di accoglienza, personale accogliente ed empatico, formato sia rispetto alla psicopatologia transculturale che rispetto alle terapie dei traumatizzati, disponibilità di mediatori culturali. Al contrario, i servizi generali di salute mentale (CSM e SPDC) appaiono mediamente meno adeguati sotto tutti questi profili.
Nei territori dove i servizi di salute mentale registrano una carenza di risorse particolarmente significativa, come la Sicilia e la Campania , anche quando l’accesso ai servizi di salute mentale si realizza, non si riesce ad assicurare più di qualche incontro sporadico, manca una reale presa in carico dell’utente. Questa situazione vale anche per i cittadini italiani, anche se i migranti – come altre fasce fragili della popolazione – la subiscono con drammaticità anche maggiore.
Un bisogno di salute complesso e dinamico
A una generale difficoltà di integrare efficacemente gli interventi sociali e sanitari che si riscontra in misura diversa su tutti i territori, nel caso dei migranti forzati si aggiungono anche elementi specifici e complessi di criticità. Gli operatori di servizi di accoglienza registrano un cambiamento significativo dei bisogni di salute mentale dei migranti accolti, in parte legato all’abbassamento dell’età media degli ospiti e alla diversa esperienza migratoria vissuta, tanto nei Paesi di transito che in Italia. Negli anni scorsi prevalevano gli adulti, che in alcuni casi erano portatori di patologie gravi e conclamate. Adesso invece i centri, specialmente in Sicilia, accolgono prevalentemente neomaggiorenni e persone molto giovani. In questo caso il disagio che manifestano assume forme tipiche della loro età: bisogno di trasgredire, di fare esperienze al limite, uso di sostanze e alcool, comportamenti a rischio in genere. Il tema ricorrente sono le dipendenze, anche dai social media, in qualche caso con un totale sovvertimento del ciclo giorno-notte.
Più in generale, su tutti i territori si registra per i migranti forzati la frequenza della cosiddetta “doppia diagnosi” (dipendenza da alcool, droga o gioco associati a sintomi psichiatrici). Alle ordinarie complessità di diagnosi in questi casi si aggiunge la difficoltà aggiuntiva di valutare correttamente la sintomatologia nel quadro di riferimento culturale specifico del paziente. I SERT su molti territori hanno difficoltà a lavorare efficacemente con persone di origine straniera e, più in generale, per come è strutturato il servizio riesce ad affrontare con efficacia soprattutto la dipendenza fisica da droghe pesanti: i percorsi di appoggio psicologico sono molto fragili e il personale, ridotto al minimo, non riesce a immaginare risposte adeguate a uno scenario diverso.
Un altro elemento che è emerso in modo ricorrente è quella che alcuni intervistati hanno definito come “ritraumatizzazione istituzionale” o “disturbo da documento”. In alcuni casi la lunghezza irragionevole delle procedure e l’assoluta mancanza di controllo sulla propria vita inducono processi che possono diventare propriamente patologici. L’eliminazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari ha avuto un impatto particolarmente evidente in Sicilia, a causa della concentrazione di neomaggiorenni che ne erano titolari. Il clima generale e la maggiore precarietà hanno portato in molti casi alla riattivazione di sintomi post-traumatici e hanno suscitato preoccupazione, panico e a volte fughe vere e proprie, con l’abbandono di percorsi di integrazione e percorsi terapeutici che si stavano rivelando efficaci.
Accresciuta fragilità sociale dei migranti forzati
La fragilità sociale dei migranti forzati, che nella maggior parte dei casi sono privi di mezzi di sussistenza, a partire dall’abitazione, e anche sprovvisti di reti familiari e amicali, rende particolarmente complesso l’avvio di percorsi di presa in carico al momento delle dimissioni dei pazienti per i quali si è dovuto ricorrere al ricovero in SPDC e, più in generale, ostacola i percorsi psico-socio-riabilitativi.
Una difficoltà aggiuntiva è quella relativa ai migranti in condizione di marginalità sociale estrema poiché fuoriusciti, anche a ragione della patologia psichiatrica, dal sistema dell’accoglienza. Nel gruppo vanno incluse anche le persone in cui la patologia si sviluppa (o si sintetizza) proprio a ragione della marginalità in cui vivono e dei ripetuti fallimenti di qualunque progetto migratorio. I recenti cambiamenti normativi hanno accentuato ulteriormente questa criticità, in quanto si è registrata in molti territori una massiccia fuoriuscita dal sistema di accoglienza di migranti privi di risorse per gestire la propria vita in autonomia e in molti casi anche in condizioni di soggiorno irregolari, in seguito al diniego della protezione internazionale o a causa dell’impossibilità di convertire il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Questi migranti sono particolarmente vulnerabili per la progressiva precarizzazione della loro esistenza dopo un lungo periodo che li ha visti in attesa di conoscere l’esito della loro richiesta d’asilo, perché esposti ad un processo di fragilizzazione con il rischio che emergano forme di disagio psicologico importanti. In questi casi la capacità del sistema di intercettare ed intervenire risulta particolarmente limitata e insoddisfacente.
L’accresciuta vulnerabilità sociale dei migranti sul territorio risulta evidente, ad esempio, dall’attività dell’unità di strada del Comune di Mantova. Tra i senza fissa dimora si registra una proporzione di 60% italiani e 40% stranieri, ma bisogna considerare che gli stranieri rappresentano appena il 14,1% della popolazione residente. I casi più gravi di marginalizzazione, spesso associati a problemi di alcolismo e altre dipendenze, depressione e diagnosi di schizofrenia, sono per l’85% stranieri presenti da tempo sul territorio, caduti in una spirale di esclusione sociale dopo lo smantellamento del sistema di accoglienza straordinario dell’Emergenza Nord Africa. Anche a Roma la stima della Sala Operativa Sociale di Roma rispetto all’incidenza di cittadini stranieri tra i senza fissa dimora (circa il 70-80%) conferma questo scenario.
2. Analisi e prima stesura delle linee di indirizzo
Alla conclusione del primo anno di attività i risultati emersi sono stati presentati e discussi con una rappresentanza degli stakeholder territoriali in un seminario tenutosi a Roma il 10 settembre 2019. Compiuta una prima analisi di quanto emerso in fase di assessment, si è proceduto a raggruppare i risultati in tre ambiti di criticità, al fine di approfondire meglio la discussione e individuare possibili strategie di miglioramento:
- Accesso ai servizi di salute mentale
- Adeguatezza dei servizi di salute mentale
- L’apporto del sistema di accoglienza.
Sono stati quindi predisposti tre documenti di lavoro, uno per ciascuno degli ambiti di criticità individuati, con una prima proposta di linee di indirizzo che servisse da punto di partenza per una ulteriore e più mirata discussione con gli stakeholder territoriali.
I criteri adottati per la stesura delle linee di indirizzo sono stati i seguenti:
- Non suddividere le linee di indirizzo per ambiti professionali (sanitario, sociale), ma piuttosto formulare proposte utili al sistema nel suo complesso. Questa scelta è scaturita dal fatto che abbiamo riscontrato una certa omogeneità nella rilevazione delle criticità da parte di tutti gli stakeholder coinvolti e un esplicito consenso sulla necessità di promuovere maggiormente l’interazione e la sinergia tra soggetti diversi.
- Cercare di lavorare, anche attraverso l’articolazione per ambiti, sulla definizione delle responsabilità specifiche degli attori coinvolti: l’accesso ai servizi è la condizione preliminare indispensabile, a cui tutti gli attori devono concorrere, ciascuno per quanto attiene alle proprie competenze; il secondo ambito, quello dell’adeguatezza dei servizi di salute mentale, interessa più direttamente il sistema sanitario; il terzo ambito attiene invece più precisamente all’organizzazione del sistema di accoglienza.
Resta in buona parte aperto il tema di come raggiungere adeguatamente i migranti forzati fuoriusciti dal sistema di accoglienza. In questo ambito ancor più che in altri è evidente come il tema dei migranti forzati non sia che un sottoinsieme del tema più ampio che interroga tutti, ossia se i servizi territoriali siano in grado di entrare in relazione con chi vive in condizioni di marginalità estrema e come ciò si realizzi.
3. Costruzione del consenso, rafforzamento delle reti territoriali e validazione delle linee di indirizzo
Nelle seconda fase del progetto Psychcare sono stati costituititi quattro tavoli di lavoro multi-attore, uno per ciascuna delle regioni in cui si sono svolte le attività del progetto.
Ciascuno di essi era composto da circa 15-20 partecipanti, esponenti dei principali stakeholder coinvolti nei servizi di supporto ai migranti forzati: Dipartimenti di Salute Mentale e altri servizi del Sistema Sanitario, Prefetture e Enti locali, enti gestori dei servizi di accoglienza CAS e SPRAR/SIPROIMI, enti di tutela e altre organizzazioni significative della società civile.
I tavoli di lavoro hanno l’obiettivo di approfondire la riflessione a partire da tre documenti di lavoro redatti dal team di progetto, che ha poi fatto confluire per quanto possibile commenti, correzioni e integrazioni nella stesura finale delle linee di indirizzo contenuto nella seconda parte della presente pubblicazione. La programmazione dei tavoli è stata in parte interrotta dall’emergenza sanitaria e dalle conseguenti misure adottate su tutto il territorio nazionale in seguito alla diffusione del Covid-19. Il lavoro di scambio è confronto, già avviato sui territori, è comunque continuato attraverso scambi di mail tra i partecipanti.
Sulla maggior parte dei punti trattati il consenso dei partecipanti ai tavoli di lavoro risulta ampio, ma si registra che su alcuni aspetti la discussione si presenta particolarmente accesa e con ogni verosimiglianza non porterà a conclusioni univoche.
Posto ad esempio che alcuni servizi hanno maturato una competenza specifica in merito alla psichiatria transculturale e che pertanto è opportuno che essi divengano riferimenti per i servizi territoriali che hanno meno esperienza, non c’è pieno accordo sulla forma che questo supporto debba più appropriatamente assumere.
Si può pensare a delle consulenze a distanza?
È auspicabile che ciascun servizio si doti di una figura con specifiche competenze ?
È meglio pensare ad altre forme di lavoro di rete, quali supervisioni, formazioni periodiche, affiancamento?
Analoghe questioni sorgono in merito al tema della mediazione linguistico culturale. A fronte di un ampio consenso rispetto alla necessità di un coinvolgimento meno episodico del mediatore e di un investimento effettivo nella professionalità delle persone coinvolte, che richiede continuità nelle risorse utilizzate e meno precarietà nelle collaborazioni che vengono instaurate, resta da affrontare la criticità organizzativa data dal fatto che le migrazioni forzate son per loro natura poco prevedibili e che dunque le competenze linguistiche e culturali necessarie nei territori possono essere diverse e variare con relativa rapidità.
Posizioni e percezioni diverse sono infine emerse rispetto all’uso dei farmaci nella terapia e agli eventuali effetti collaterali che essi possono avere su questa specifica tipologia di pazienti. Al di là di valutazioni specifiche in merito all’adeguatezza del trattamento in alcuni singoli casi, si può certamente affermare che i casi di misdiagnosi sono frequenti nella cura di migranti forzati e che la mancanza di formazione al lavoro con pazienti di altre culture, unita ai molti elementi che rendono particolarmente complessa la compliance, può certamente portare ad errori diagnostici e terapeutici.
Ancora più ampio e più complesso infine è stato il dibattito, sotteso a molti dei confronti e in più occasioni esplicitato, su che ruolo debba assumere la psichiatria rispetto a quelle che si configurano come vere e proprie emergenze sociali: da un lato molti specialisti temono una eccessiva medicalizzazione del disagio, immaginando che si possa finire con l’attribuire all’azione terapeutica una valenza impropria, se non addirittura strumentale al controllo sociale. D’altro canto però la correlazione tra marginalità e salute mentale è molto evidente e, specialmente nel caso dei migranti forzati, soggetti esposti ripetutamente a traumi e violenza estrema, l’intervento sociale necessita in molti casi di essere integrato da un sostegno specifico relativo alla salute mentale, pena il fallimento dei percorsi proposti. D’altra parte, una riflessione sull’organizzazione dei servizi sociali destinati specificamente ai migranti forzati, a partire dal sistema di accoglienza, potrebbe concorrere in modo significativa a quell’azione di sensibilizzazione e promozione della salute mentale che, pur non essendo responsabilità esclusiva del sistema sanitario, fa comunque parte integrante della cura in senso ampio. L’esigenza di una maggiore integrazione tra dimensione sanitaria e sociale è già riconosciuta e formalizzata in alcuni ambiti di intervento (si pensi ad esempio alla disabilità) e in varie regioni italiane si sta sperimentando lo strumento del budget di salute come opportunità di co-progettazione di percorsi individualizzati tra servizi sanitari e servizi sociali. Un modello più efficace di presa in carico per i migranti forzati deve certamente andare in questa direzione.
La versione delle linee di indirizzo contenuta in questa pubblicazione può dar conto solo limitatamente della ricchezza della discussione e non va pertanto intesa come la conclusione di un percorso, ma piuttosto come un contributo e uno stimolo a proseguirlo, con altri attori e in altri territori. Come si dichiarava in premessa, l’obiettivo che il progetto Psychcare traguarda, è quello di giungere, a livello regionale, ad un consenso sempre più allargato su modelli di servizio per la tutela della salute dei migranti, e in particolare della salute mentale, che soddisfino standard di qualità condivisi e siano culturalmente appropriati; a livello nazionale a produrre indicazioni utili per il miglioramento del sistema complessivo; a livello europeo, ad offrire un contributo alla riflessione sul tema, partendo dalla specifica esperienza italiana in materia.
Allegato 1
Traccia per le interviste semi-strutturate, distinta tra quella rivolta agli operatori e quella relativa all’intervista ai migranti.
Allegato 2
Traccia di domande utilizzate per la conduzione dei focus group