Il grande successo dello “spettro autistico” come categoria diagnostica – le diagnosi di autismo esplodono in tutto il mondo detto occidentale – si accompagna a una riflessione psichiatrico-filosofica sempre più sofisticata, che porta anche a nette divaricazioni sia teoriche che etiche.

C’è una corrente psicoanalitica (che include di fatto quasi tutte le scuole analitiche) che tende a vedere l’autismo come una forma specifica di psicosi, e quindi di riportare la soggettività autistica a teorie analitiche precise sulla psicosi. Alcune insistono sulla relazione primaria madre-bambino (“la madre anaffettiva”), altri invece sul pignoramento del Nome-del-Padre (lacaniani).
C’è una corrente cognitivista, che attualmente è egemone nel mondo della clinica e del trattamento degli autistici, che interpreta l’autismo come una mancata Teoria della Mente (ToM). Gli autistici sarebbero dei “comportamentisti” viventi che non riconoscono la mente, propria e altrui, come tale.
C’è infine una corrente più magmatica, meno strutturata, che si pone la questione della soggettività autistica, facendo riferimento vuoi alla fenomenologia, vuoi a Wittgenstein. Questa corrente interpreta l’autismo vuoi come incapacità di empatia (Vittorio Gallese), vuoi come agnosia della soggettività (Ian Hacking).

Questi tre approcci teorici si prolungano in diversi approcci clinici. Si tratta quindi di leggere i vari approcci clinici – compresi quelli marcatamente cognitivo-comportamentali – come applicazioni o corollari di una certa visione dell’autismo.

Ma che cosa è essenzialmente l’autismo?
Come il riconoscimento dell’essenza stessa dell’autismo implica strategie curative diverse?
Perché la diagnosi di autismo è oggi così popolare?

Si proverà a dare risposta a queste domande nel