“Adolescenza e Covid”
di Catia Isabel Santonico
Gli effetti del COVID 19 sulle nuove generazioni aprono lo scenario a riflessioni su diversi aspetti che a vario livello investono la dimensione adolescenziale.
Da una parte l’impatto dell’imprevedibile ha contribuito ad evidenziare le angosce più profonde che nulla hanno a che fare con le paure legate agli aspetti consueti di una fase della vita necessariamente caratterizzata da importanti cambiamenti. E infatti sono numerosi gli allarmi e le dichiarazioni di preoccupazione che giungono relativamente agli effetti della pandemia sugli adolescenti.
I segnali che continuamente arrivano sono quelli di una maggiore sofferenza psicologica che pare esprimersi – pare perché i dati epidemiologici sono molto scarni – con un aumento dei sintomi espressivi (agiti impulsivi, iperattività, oppositività, fino agli agiti violenti di cui parla la cronaca), oppure con una sorta di accentuato ritiro sociale; ancora disturbi del sonno, del tono dell’umore, disturbi ossessivo compulsivi, o anche disturbi dell’alimentazione intesi in senso molto ampio fino a quadri depressivi e fenomeni di derealizzazione.
Dall’altra parte, la pandemia ha modificato gli assetti famigliari: genitori più presenti, forse meno forti ma più attenti hanno denunciato problematiche nei figli adolescenti e cercato aiuto professionale. È difficile cogliere in che misura questi allarmi, queste sofferenze, come queste richieste di aiuto, possano essere legate ad una diversa interazione tra genitori e figli, come effetto di una coabitazione importante nella quale non sono soltanto mancati gli spazi di socializzazione con i pari, sono mancati anche gli spazi di intimità. Si ha infatti l’impressione che un’interazione genitori-figli così costante, abbia amplificato le tensioni e gli elementi che potremmo definire di preoccupazione, da parte dei genitori, i quali spesso non sono abituati ad interagire quotidianamente con le peculiarità del comportamento adolescenziale.
Certamente da questa dimensione di ritiro sociale, che appare diffusa, soprattutto dopo il periodo di lockdown o forte limitazione dei contatti legato all’emergenza sanitaria, deriva per gli adolescenti un processo regressivo di “infantilizzazione”, con un’interruzione nei processi di autonomia e di emancipazione dalle figure genitoriali e, invece, un ritorno ad una condizione più “filiale” non solo associata ad un aumento dei disturbi d’ansia e ad un cambiamento nei comportamenti tipici dell’età adolescenziale (la ricerca del rischio, la scoperta della sessualità, ecc.), che si evidenzia anche nella incapacità di esprimere se stessi in un sistema di pensiero autonomo.
Ma siamo certi che questi segnali siano interamente interpretabili come effetto della pandemia e della conseguente forte compressione delle opportunità di relazione con i pari?
Possono invece indicare che era già in atto un processo di “pervertimento” dell’adolescenza, i cui effetti sono apparsi in modo più evidente alla fine di questo anno difficile?
I dati di allarme che attualmente provengono dagli ospedali pediatrici per il significativo aumento dei ricoveri per atti autolesionistici e tentati suicidi, per effetto della pandemia, spesso non fanno riferimento al fatto che un aumento di questi fenomeni si registra da anni[1].
Analogamente, già nelle analisi sociologiche dei nativi digitali, è apparso il tema di una maggiore tendenza degli adolescenti a stare in casa e ad uscire con i genitori e di una concomitante perdita di attenzione per i temi della sessualità, per via di un erotismo oggi iperstimolato tramite il digitale, che non lascia spazio all’immaginazione e al desiderio del contatto reale.
È certamente vero che la questione dell’impoverimento dei contatti sociali con il gruppo dei pari è un tema su cui si riflette da tempo, con riferimento, ad esempio, al fatto che i minorenni non fanno un’esperienza di relazione con i pari non mediata dagli adulti fino almeno a 14 anni. L’impatto di questo, come di altri fattori, forse è stato poco considerato.
Insomma, ritirati socialmente a causa della pandemia o assorti in nuovi modelli di comunicazione lontani dal mondo e dal controllo degli adulti?
Crediamo che tutti questi elementi vadano letti globalmente per cogliere il senso dei cambiamenti che il COVID 19 ha portato alla luce. Mancano dati empirici e una approfondita riflessione in ambito clinico e educativo. Pertanto la nostra proposta è che si avvii in merito una riflessione che interroghi l’esperienza clinica con adolescenti relativamente a queste intuizioni, osservazioni, agli allarmi che vengono lanciati per capire se trovino o meno una conferma e se già sia possibile avanzare delle ipotesi interpretative.
Certamente se questi segnali di disagio erano già stati registrati viene da chiedersi perché non siano stati considerati da chi ha preso decisioni che li hanno coinvolti.
Note:
[1] Guida della Società di Neuropsichiatria infantile per emergenza-urgenza psichiatrica dicono che gli accessi in Pronto soccorso nei minori tra i 10 e i 17 anni sono aumentati del 30% negli ultimi anni, con un +8% di ricoveri ordinari (12-17 anni) e l’incremento medio delle degenze di 47 giorni.