"Controverso"

La sera di martedì 11 giugno 1630, a Milano accadde un evento doppiamente memorabile: il cardinale Federico Borromeo guidò una solenne processione per chiedere a Dio, con l’intercessione di San Carlo Borromeo, la grazia di interrompere l’epidemia. La processione imponente e drammatica si snodò per le principali strade della città; prelati e nobili vestiti riccamente, popolani coperti di stracci: chi a cavallo, chi camminando, chi strisciando di fianco alla corrente umana, chi stramazzato al suolo; fiocamente illuminati dalla luce delle torce, in una calura insopportabile per l’ammassamento.
Vi parteciparono tutti i cittadini che riuscivano a stare in piedi.
Il contagio, favorito dall’assembramento memorabile, scatenò la peste con intensità altrettanto memorabile: i malati aumentarono in modo impressionante. Chi manifestava i sintomi della peste veniva semplicemente portato via e scaricato in un luogo di sofferenza e di morte. Scomparivano le persone care, che non sarebbero state mai più viste.

Il grande cardinale Federico, personalità colta ed intelligente, immaginava l’epidemia come la punizione divina – chi non ricorda l’Edipo Re di Sofocle? – causata dal comportamento immorale degli esseri umani, e l’argomento resta attuale; egli ricordava la precedente pestilenza del 1576, il cui numero relativamente basso di morti era attribuito all’iniziativa di San Carlo Borromeo che ottenne l’estensione del Giubileo a Milano: la processione, secondo Federico, rappresentava perciò il farmaco.

Naturalmente la fine della peste e il Giubileo di Milano furono correlati al contrario: l’epidemia della peste spinse San Carlo a richiedere l’estensione del Giubileo a Milano; nell’attesa della concessione si attenuò la forza del contagio; quando fu proclamato il Giubileo la peste stava già scomparendo. Sarebbe stata drammatica l’inversione temporale: ma questa considerazione, fa parte del senno di poi.
Venerdì 10 aprile 2020, nella città di Roma, il papa Francesco ha celebrato la processione della Via Crucis in una piazza San Pietro rigorosamente vuota se non per la presenza di dieci/dodici persone officianti, poste a debita distanza. Quest’iniziativa, il cui valore spettacolare è stato memorabile, si contrapponeva alle normali tradizioni celebrative nei pressi del Colosseo, capaci di richiamare decine di migliaia di fedeli. Attraverso questa scelta il papa ha condiviso la teoria farmacologica del distanziamento.
Altrove, altri potenti hanno preferito la posizione scelta nel 1630, il cui valore farmacologico attuale sarebbe indirizzato verso la guarigione dalla pandemia economica e politica, forse. 
Un mio paziente acattolico – e fortemente avverso alla morale religiosa – in una seduta telefonica si rammaricava della povertà di quella cerimonia pasquale, per quanto teatralmente efficace, e mi chiedeva se fossi d’accordo con lui nel ritenere il comportamento del papa espressione della corruzione dei tempi, della privazione delle libertà, della fine della democrazia.
Mercoledì 26 febbraio fu l’ultima volta che vidi un altro paziente, medico ospedaliero. La settimana successiva mi telefonò scusandosi di dover rinunciare alla seduta “per motivi di famiglia”, formula generica che indica un grave impedimento. Mercoledì 11 marzo mi telefonò ancora, per chiedere notizie sulla mia salute: avute le rassicurazioni, mi comunicò la scomparsa del padre – in senso figurato e reale dato che non lo poté più vedere – e la sua propria
malattia. Non ho più visto né sentito quel paziente: una sorta di contrappunto contemporaneo all’episodio della Madre di Cecilia di manzoniana memoria.

Un po’ di letture impongono ulteriori riflessioni.
Secondo Ezio Mauro (Liberi dal male, Feltrinelli, 2020) tre fatti concomitanti caratterizzano questa pandemia: l’emergenza sanitaria, l’emergenza economica, l’emergenza politica. Le validissime e drammatiche considerazioni non si configurano però come la novità del terzo millennio: anche la peste di Milano, di manzoniana memoria, presentava medesime caratteristiche, ben illustrate nel grande romanzo: l’emergenza sanitaria (la madre di Cecilia), l’emergenza economica (l’assalto ai forni del pane), l’emergenza politica (i moti di piazza e La caccia agli untori).

Piuttosto si potrebbe rilevare che il virus, capriccioso ed enigmatico, ci abbia imposto un salto all’indietro nel tempo: in ambito sanitario, economico, politico e – addirittura – che abbia favorito la ricomparsa dei viceré, che ora prendono il nome di governatori.

Patrick Zylberman (Tempêtes microbiennes, Gallimard 2013) mise in evidenza la tendenza dell’OMS a proporre, in ogni opportuna occasione, il peggiore scenario possibile al fine di suscitare il terrore sanitario. Questa cassandriana scelta di politica sanitaria, oltre a non piacere in generale, lascia insorgere il sospetto di favorire qualche interesse specifico; ma non va disconosciuta l’esigenza di un organismo che sappia raccogliere e ridistribuire correttamente
i dati sulle emergenze.
Il terrorismo sanitario, oltre all’aspetto retorico della questione, produce come effetto secondario l’attivazione di un meccanismo ancestrale: quando propone di essere cicale – e cioè maniacali, magari in primavera –, ci invoglia invece al comportamento delle formiche depresse e ossessive; quando esorta alla trasformazione in formiche – come ottusi e depressi esecutori, magari in estate –, suscita invece il desiderio opposto.
A onor del vero si è notato un momentaneo tentativo di trasformazione in cicaloformiche – attraverso rituali maniaco depressivi – con esibizioni sui terrazzi e alle finestre al grido di Viva l’Italia e Andrà tutto bene, più o meno… finché la paura è stata intensa e la speranza viva.

Giorgio Agamben (Quodlibet, 11 maggio 2020) si è domandato se la nostra società potrà ancora definirsi umana – in epoca covid19 & post –; oppure se la perdita dei rapporti sensibili – il volto, l’amicizia, l’amore – possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria, astratta e presumibilmente del tutto fittizia.
La domanda è lecita e importante, anche se sembra far riferimento ad una età dell’oro, che non c’è mai stata.
Infatti non ci si può non domandare se la nostra società si sarebbe potuta definire, fino all’otto marzo duemilaventi, umana: perché l’elenco delle perdite di umanità era già ricco e a più riprese deplorato: dall’avvento dei social, di internet, della televisione, degli aerei, dei treni, delle carrozze, della ruota e dell’uomo sapiens stesso. L’ultimo in elenco è stato l’avvenimento di gran lunga il più drammatico, avendo dato l’avvio, circa centomila anni fa, all’inizio della nostra storia – che è la storia tout court – e alla contemporanea fine del rispetto delle altre creature viventi e inanimate, a causa della comparsa del più feroce assassino.
Ma con questo non si vuole svalutare il dramma delle separazioni imposte a causa del covid19.

Argomentare particolarmente ricco è quello di Andrea Baldassarro (Huffington Post, 15 maggio 2020) che si è concentrato, con grande puntualità, sulla professione psicoanalitica
e sugli aspetti che la riguardano: l’angoscia dell’altro – che è anche angoscia di se stessi, in quanto ciascuno di noi rappresenta anche l’altro –; il desiderio della sopravvivenza fisica ed economica; la fase depressiva cui dovrebbe seguire quella maniacale. Rileva inoltre come la psicoanalisi abbia dovuto far uso rapidamente della tecnologia digitale e del lavoro “in remoto”, e di come si sia mostrata compiaciuta di questa trasformazione radicale che pare non
abbia nociuto ai trattamenti in corso; di come invece sia preoccupante la futura presenza dei corpi nella stanza d’analisi, che susciterà un nuovo timore per i dispositivi di protezione.
L’esperienza diretta ci fa dissentire immediatamente sull’ultimo punto della questione: i dispositivi di protezione rendono la presenza
dei corpi decisamente più corporea e persino buffa con l’esibizione – questa sì profondamente umana – delle più bizzarre e variopinte mascherine.
La conclusione del ragionamento proposta nell’articolo sembra invece abbastanza incontrollata: il problema della libertà personale; la deriva delle democrazie se lo stato di eccezione diviene norma; il dubbio sul senso da dare agli spostamenti nel mondo, del cercare qualcosa senza sapere cosa… neanche Siddharta (Herman Hesse, 1922) e Milarepa (UgTsang Smyon He-ru-ka, 1488) remano tanto indietro… come se questa non fosse, per l’appunto, la vicenda umana: un viaggio – con o senza – esperienza di nulla.
Conclude Baldassarro che gli uomini non sono gli algoritmi, non sono i numeri che indicano le preferenze e i gusti, ma esseri pensanti: dimenticando, in questa deriva romantica post-manzoniana, che appunto gli algoritmi e i numeri ci fanno esseri pensanti e che attraverso di essi rinasce ogni giorno la favola umana.
Il termine dromo, interessante perché effimero, indica un percorso solo immaginato, virtualmente individuabile grazie alla scelta di alcuni punti di riferimento. Inizialmente mi disorientava la difficoltà di metterne a fuoco il significato; poi è arrivato il ricordo di una fobia antica che forse non esiste più: la paura di viaggiare in treno, siderodromofobia.
Questo termine risulta di per sé contraddittorio perché la strada ferrata rappresenta una costrizione solo temporanea e virtuale, visto che propone invece una moltitudine quasi illimitata di mete: si tratta di una fobia relativa alla libertà del viaggio o alla costrizione dei binari?
Altre parole composte aiutano a comprendere di più: autodromo, velodromo indicano percorsi chiusi, che lasciano traiettorie aperte. Simile contraddizione ben si adatta all’attuale situazione sociale.

Fedele all’idea contenuta nel titolo “controverso”, mi domando di quale nuova limitazione delle libertà si stia attualmente parlando: Pasolini, nei lontanissimi anni ’70, temeva l’omologazione e l’impoverimento culturale causati dalla televisione, salutati invece come liberazione dalle nuove generazioni, nelle quali ero incluso; la prevalenza delle terminologie anglofone assume il colore della libertà e della comprensione, mentre la forte perdita nel vocabolario personale della lingua madre diviene un limite importante per la formulazione del pensiero; la globalizzazione dell’economia, trasformando molte vite nel regno del bengodi, sottrae al pensiero – ed anche al sospetto di ogni pensiero – idee interessanti, relegate nel regno del ridicolo, se non dell’impossibile.
Anche il perturbante del distanziamento – che è uno degli argomenti portanti di ogni discussione per le conseguenze in psicoterapia – dovrebbe lasciare un po’ perplessi: la pratica della psicoanalisi ha fatto del distanziamento il principale algoritmo della cura, la cui efficacia è stata provata in molti decenni, e questa pandemia ha dimostrato in maniera possibilmente ancora più evidente.
Infine non sfugge l’equivoco del sopra menzionato terrore sanitario che, nel corso della storia recente, è andato man mano a sostituire il terrore del peccato: dalla morte dell’anima – attraverso una regressione significativa – alla morte tout court.
Gli officianti del benessere sanitario mondiale, probabilmente non meno paludati di altri officianti in altri tempi, promettono indulgenze a chi osservi i nuovi comandamenti – ad alcuni dei quali va sicuramente concesso valore –; e nella confusione che regna sotto il sole qualcuno si oppone ad essi per guadagnare spazi economici e politici, nell’attesa di essere posto sul rogo.
Oltrepassando il personale delirio – e premesso che tutti dovremo morire per quanto non ne siamo intimamente convinti – l’impressione è che ciò che terrorizzi davvero non sia la contestatissima virulenza del virus, ma il doversi sentire partecipi di una società fragile paragonata a quella degli “anziani” o dei “malati cronici”, magari asintomatici.
Gli anziani, i malati cronici, le persone affette da malattie rare, vivono costantemente nel ricatto del terrore sanitario: molti di noi non solo ritengono adeguato a queste categorie fragili tale stile di vita ma, anche, contribuiscono attivamente a terrorizzare gli individui che ne
fanno parte – soprattutto se anziani o bambini – in perfetta “buona coscienza” fin tanto che si sentono partecipi della categoria degli adulti, in buona salute, inclusi nel ciclo produttivo; e qualcuno aggiungerebbe magari bianchi e anglosassoni…

La brava e inquieta poetessa russa Marina Ivanovna Cvetaeva sosteneva che alla stupidità (della borghesia) fosse in grado di opporsi solo la poesia; parafrasandone le intenzioni si potrebbe sostenere che contro la stupidità del terrorismo culturale possa opporsi solo la migliore qualità della vita possibile.
E magari anche un po’ di poesia

DROMO, rivista per un terzo pensiero

Questa rivista vuole proporsi come un luogo nel quale queste professioni, che paiono obsoleti retaggi di un mondo che fu, sappiano farsi interpreti del loro ruolo, ricollocando questo ruolo in questo spazio tempo presente che è già futuro, evitando di divenire i servi sciocchi di un potere sempre più occhiuto e pervasivo e quindi asserviti ad una acritica idea di progresso, ma neppure costretti alla costante difesa di un passato che non c’è più.
Disponibile in Free Download:
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