La Restorative Justice in Italia ha certamente contribuito ad un ripensamento del concetto di pena ed alla critica alla dimensione afflittiva e retributiva del sistema di giustizia, ma ha fallito nel sollecitare una maggiore attenzione alla specifica sofferenza della vittima ed al suo bisogno di riconoscimento in quanto soggetto vulnerabile, nel sistema di giustizia e nella società così, come la direttiva 2012/29/UE sulle vittime chiedeva di fare. Ne è chiara evidenza il Decreto attuativo del 15 dicembre 2015 n. 212 che mostra di aver accolto in modo molto parziale le indicazioni del legislatore europeo.
Avanzi di un viaggio
Circa 20 anni sono passati da quando la giustizia riparativa ha cominciato a muovere i primi passi in Italia. È possibile fare un bilancio, certamente parziale – parziale nel duplice senso di “incompleto” e “di parte” – di questa comunque entusiasmante esperienza?
Con riferimento in particolare all’area della giustizia minorile, in cui il paradigma riparativo ha conosciuto una più ampia sperimentazione, si può dire che quella della giustizia riparativa continua a rimanere, nel nostro Paese, una pratica minoritaria riservata, in particolare, solo ad alcuni reati e ad alcuni profili di minori. I casi di mediazione, circa 600 – 700 l’anno, riguardano circa il 4% dei minori in carico ai servizi. Inoltre, tutte le informazioni raccolte fino a questo momento, ci dicono che l’uso della mediazione rimane riservato ad un profilo di giovani per lo più italiani, con una prevalenza della componente femminile, con un buon background educativo e condizioni sociali piuttosto favorevoli.
D’altro canto, è invece possibile affermare che il paradigma riparativo ha trovato accoglienza nell’ambito della Magistratura minorile, che ha mostrato negli anni una sempre maggiore attenzione al tema della mediazione, riconoscendolo come strumento di interesse, sia nella fase di valutazione della personalità del minore (art.9 del DPR 488/98), sia nella fase di messa alla prova (art. 28). Da segnalare anche la partecipazione attiva della Magistratura minorile alla formulazione di intese con i servizi della Giustizia Minorile e con gli enti locali.
Tuttavia, rimangono aperti molti dei problemi teorici che la Restorative Justice solleva – e lo strumento della mediazione in particolare (VOM Victim Offender Mediation). In particolare: il ricorso al paradigma riparativo prevalentemente in relazione ad alcune tipologie di reato, che coincidono con quelle tendenzialmente meno gravi; l’utilizzo “degli esiti” della mediazione e quindi il significato eventualmente strumentale che gli stessi possono assumere nel percorso di responsabilizzazione del minore; infine, come da più parti segnalato, il modestissimo ricorso alla mediazione nella fase post sentenza.
Inoltre, vi è un dato altrettanto significativo: l’affermarsi di una cultura della giustizia riparativa non ha contribuito ad un vero aumento di attenzione al tema della vittima. A nostro avviso, il paradigma riparativo è rimasto infatti “intrappolato” in una dimensione per così dire reo-centrica, come dimostra, ad esempio, la grande distanza, se non vera e propria diffidenza, delle associazioni delle vittime e/o dei centri antiviolenza, verso le esperienze di mediazione (lo dimostrano le indagini ed analisi condotte nell’ambito del Progetto Yo.Vi.[1]); ma anche una scarsa o poco diffusa consuetudine dei centri di mediazione stessi a lavorare in rete con altri servizi a favore delle vittime di reato.
Per dirla in estrema sintesi: la Restorative Justice in Italia ha certamente contribuito ad un ripensamento del concetto di pena ed alla critica alla dimensione afflittiva e retributiva del sistema di giustizia, ma ha fallito nel sollecitare una maggiore attenzione alla specifica sofferenza della vittima ed al suo bisogno di riconoscimento in quanto soggetto vulnerabile, nel sistema di giustizia e nella società. Il recepimento parziale e tardivo da parte del nostro Paese della recente Direttiva comunitaria sulle vittime con il Decreto attuativo del 15 dicembre 2015 n. 212 né fornisce, a nostro parere, chiara evidenza.
Rischio di seconda vittimizzazione?
Il ruolo fondamentale svolto dalla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 (Direttiva 2012/29/UE) che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime, si manifesta in tutta la sua importanza non appena si consideri quanto essa dovrebbe costringere a ri-pensare e a ri-modellare il nostro sistema di giustizia in direzione della vittima, visto che, negli ultimi 40 anni, la Giustizia tutta – cioè sia la Giustizia dei codici sia la Giustizia Riparativa – non sembrano esser riuscite nell’intento di riconoscere piena dignità a questa figura.
Il ruolo della vittima è per così dire vincolato all’asse dell’azione penale declinata lungo una triplice direttiva: l’accertamento della responsabilità; l’obbligatorietà della stessa; l’applicazione della pena. In questo senso, la sofferenza insita in ogni esperienza di vittimizzazione resta in una posizione subalterna rispetto alla commissione di un reato, alla condanna del colpevole, alla commisurazione della pena, dosata in base alla gravità del fatto commesso ed al bisogno di ri-socializzazione del suo destinatario. È evidente il permanere di una sorta di centralità della figura del reo. E resta il fatto, ancorché meno evidente, che la persona che subisce il danno rischia di essere ri-vittimizzata dalle stesse procedure della giustizia dei codici (dall’incontro con le forze dell’ordine, alle regole del procedimento penale, al rapporto con gli avvocati, oltre che dai tempi lunghi della giustizia medesima).
Anche per ciò che riguarda il paradigma riparativo, pur portatore di una cultura di ri-scoperta e ri-considerazione della vittima, dei suoi diritti-bisogni, e del ruolo della comunità, le sue declinazioni pratiche non sono scevre dal rischio di esporre la vittima ad una ri-vittimizzazione. Tant’è che la Direttiva sembra mettere in guarda per l’appunto contro il rischio di vittimizzazione secondaria, anche nelle procedure della giustizia riparativa[2] chiedendo agli Stati membri di rivedere le pratiche di intervento e i modelli di collaborazione interservizi e con le organizzazioni della società civile.
Le vittime di reati commessi da soggetti minorenni
Una questione significativa della posizione della vittima nella mediazione è connessa alla libertà di scegliere se entrare o non entrare in mediazione, libertà che dovrebbe essere garantita dalle procedure. Sappiamo però che questa libertà è un ipotesi che si scontra con la convinzione testimoniata dal sistema della giustizia riparativa che la mediazione serva alla vittima, come al reo, al punto da non riconoscere come pienamente lecita la scelta della vittima di non entrare in mediazione.
E questo è ancora più vero nel caso delle vittime di reati commessi da minorenni, laddove la vittima viene chiamata a partecipare non solo in quanto parte lesa ma anche come interprete (con un ruolo per altro affatto marginale) dell’azione rieducativa che la società è chiamata a compiere in virtù della responsabilità assunta nei confronti del reo. Mentre, infatti, nella giustizia degli adulti la pena mantiene una funzione afflittivo/retributiva, nel caso dei minori la pena è radicalmente rieducativa. L’intero sistema della giustizia minorile è concepito come avente funzione pedagogica, una funzione che si realizza a patto che il sistema ampio dei servizi e degli attori del territorio, e la comunità locale, se né assumano appieno la responsabilità. Sottrarsi al processo di mediazione penale per la vittima, significa quindi non solo sottrarsi ad una responsabilità educativa, ma ridurre le opzioni percorribili nel percorso rieducativo del minore.
Non solo. Questa richiesta di assunzione di responsabilità, da parte della vittima, si pone come antitesi alla tesi che la mediazione non ha nulla a pretendere da chi vi entra nelle vesti di autore, come dalla persona offesa, neanche il perdono, mentre è proprio questo “non voler nulla” a garantire al percorso possibilità di successo[3].
Se la difficile sintesi tra le due istanze – l’assunzione della responsabilità sociale nei confronti del reo e la libera adesione al percorso della mediazione – è connaturata al sistema della giustizia minorile nel nostro Paese, lo è ancor più alla Victim Offender Mediation, laddove la vittima è chiamata a confrontarsi con le possibilità offerte dalla mediazione, per sé e per il reo, su mandato del giudice minorile. Lo specifico contesto della mediazione penale minorile in Italia riduce quindi inevitabilmente il margine per l’esercizio dell’opzione di non entrare in mediazione da parte della vittima. E se tale opzione viene esercitata è quasi immancabilmente ad un costo aggiuntivo.
Quanto si sostiene non cambia nel caso in cui anche la vittima sia un minorenne, come accade in media nel 45% dei casi di mediazione penale minorile monitorati tra il 2012 e il 2015[4], dove la vittima, meritevole in quanto minore di protezione e tutela, non è per questo meno soggetta ad una richiesta di assunzione di responsabilità nei confronti dell’autore del reato, rispetto alla vittima adulta.
La contraddizione che è tipica del sistema in cui si muove la VOM in Italia non può essere negata. Solo assumendola come dato ineluttabile si può avere consapevolezza dei rischi di vittimizzazione secondaria che la partecipazione al processo di mediazione sottende, come per altro ben sanno gli operatori della mediazione e come previsto dai protocolli che guidano le procedure mediative.
Chiaramente, nel riconoscere questa “costrizione” all’ingresso in mediazione, legata all’assunzione di una responsabilità educativa nei confronti del reo, non si intende sollevare un elemento di critica, poiché è evidente che la riacquisizione di un ruolo della vittima nella giustizia, così come postulato dalla giustizia riparativa, non può che giocarsi sull’asse della responsabilità, ancorché dolorosa.
Giustizia dei codici e responsabilità sociale
Della responsabilità sociale nei confronti delle vittime di reato, prima della direttiva, non capitava sovente di sentir parlare, e forse anche oggi tale tema fa fatica ad affermarsi. Il paradosso in questo caso è, se è possibile, ancora più evidente se si pensa a quanto ripetutamente venga chiamata in causa la responsabilità della società nei confronti del reo (emblematico, come si è visto, il caso dei rei minorenni) proprio in virtù del ruolo che all’ambiente viene assegnato nella produzione di attitudini criminogene da molte analisi sociologiche e criminologiche (da cui discende il tema della responsabilità rieducativa della pena). La medesima responsabilità nei confronti delle vittime è stata spesso trascurata, per cui non è soltanto nella aule di Giustizia che le vittime vedono ancora negata la loro dignità a favore di un approccio tutto reo-centrico, ma è anche nella società, laddove mancano azioni concrete di sostegno a loro favore.
Ma la vittima non può essere solo destinataria di azioni sociali. Sarebbe un errore concepire la pur necessaria attenzione sociale nei confronti delle vittime alla stregua di un insieme di azioni di specifica ed esclusiva pertinenza del welfare, cioè sganciato dal sistema della Giustizia. La questione del sostegno alla vittima interessa infatti necessariamente la Giustizia, anche quando e laddove gli interventi sono agiti da un sistema variegato di servizi sul territorio.
Ecco perché il recepimento della Direttiva solo in misura marginale riguarda aspetti di ordine tecnico. Recepirla vorrebbe dire soprattutto promuovere trasformazioni di ordine culturale e di sistema.
La Direttiva Ue sulla protezione delle vittime del 2012 afferma il diritto delle vittime al riconoscimento sia della dignità e della rilevanza sociale del proprio dolore, sia di un sostegno e di una protezione da parte della società, indipendentemente dal reato che le ha viste coinvolte.
Il testo della Direttiva testimonia come implicitamente e gradualmente si stia superando il tradizionale approccio di intervento mirato alle vittime di reati socialmente rilevanti (le vittime del terrorismo, le vittime della violenza di genere, le vittime di discriminazione razziale) in favore di risposte meno influenzate, nella scelta delle azioni da mettere in campo, dall’allarme sociale generato dall’una o dall’altra esperienza di vittimizzazione. Dunque risposte guidate dall’ascolto e meno dall’emotività, cioè risposte più attente al tema delle vittime in generale. In tal senso, il documento comunitario sollecita l’Italia – così come tutti gli altri Paesi membri – a prendere le distanze dai sistemi mirati di sostegno a vittime specifiche[5].
È indubbio che alcuni reati necessitino di servizi specifici e più “intensi” per il “clamore” sociale che producono. Storie che come si è visto l’Italia conosce bene, ma la direttiva non si rivolge alle categorie di soggetti più vulnerabili. Tutte le vittime, hanno diritto ad esser trattate con rispetto della loro dignità. Non importa quale reato abbiano subito, dove esso abbia avuto luogo. Non importa chi sia la vittima, da dove venga e quali siano i fattori che hanno contribuito ad esporla all’esperienza di vittimizzazione. Tutte le vittime hanno diritto ad esser sostenute nel periodo immediatamente successivo al crimine e, nondimeno, in seguito, per tutto il tempo necessario. Ed insieme a tutti i profili di vittime, è opportuno prendere in carico (ovvero aver cura) anche tutti gli aspetti di sofferenza che il reato ha prodotto nell’esperienza dei singoli.
Certo, anche sul versante complesso dei livelli di partecipazione della vittima nell’ambito del procedimento penale, l’Italia non è certo tra i Paesi più attivi in Europa: le persone vittime di reato presentano bisogni specifici, rispetto ai quali la risposta del Paese è ancora da strutturare. Di particolare significatività appare, inoltre, la trasposizione delle riflessioni finora esposte all’esperienza del sistema penale minorile in Italia, considerando che la tutela del minore e l’istanza educativa – intese quali priorità nell’incontro con la Giustizia Penale per un minore autore di reato – prevedono l’esclusione della costituzione di parte civile della vittima. Ma al di là degli aspetti particolari, nell’ambito di qualsiasi procedimento penale che la riguardi, la persona offesa è portatrice di esigenze specifiche relative a: informazione sul processo, riconoscimento del torto subito, interventi volti alla riparazione del danno e messa a punto di forme di ritualità processuali che non comportino un danno maggiore.
Ritorno al presente
Come è detto, il legislatore italiano ha storicamente scelto di prestare attenzione alle vittime in modo episodico, limitato ai soli casi connotati da elementi di straordinarietà e di urgenza. Basti pensare alle leggi in materia di terrorismo, di criminalità organizzata e quelle a protezione delle vittime di estorsione e usura. Coerentemente, il sistema di sostegno alle vittime si è andato costruendo attorno ad alcune specifiche esperienze di vittimizzazione e tra le vittime che beneficiano di servizi “specializzati” si annoverano le vittime di reato intra familiare (in particolare le donne abusate e le vittime di tratta che possono accedere alla rete dei servizi antiviolenza attraverso una helpline) e le vittime di discriminazione razziale (che possono segnalare, sempre tramite numero verde, il loro caso all’UNAR).
Le esperienze ad oggi più strutturate, integrate e continuative dal punto di vista operativo e del sostegno prestato alle vittime in Italia sembrano dunque essere quelle dei centri antiviolenza e dei servizi pubblici e privati che costituiscono lo strumento di contatto per le donne vittime di violenza intra ed extra familiare e di stalking (realtà attualmente inserite nella Rete Nazionale Antiviolenza raggiungibile attraverso il servizio telefonico 1522, istituito dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Si tratta di una rete, fatta di servizi “specializzati” per le vittime (pubblici, privati, gestiti da associazioni e cooperative) e di servizi di base del territorio. Per altre categorie di vittime l’intervento di sostegno appare meno articolato, più intermittente ed eterogeneo negli strumenti disponibili. In particolare nel Mezzogiorno si annoverano strutture fortemente impegnate nel campo dell’usura e del racket, fornendo assistenza e sostegno alle persone che restano coinvolte in queste fattispecie criminali soprattutto sul fronte della sicurezza personale e della sicurezza economica[6]. Ed è utile segnalare che altre tipologie di centri, proprio in quelle stesse aree, sono decisamente assenti: seppure in passato in alcune Regioni alcuni Enti locali abbiano aperto sportelli dedicati alle vittime di estorsione e usura, si è trattato di esperimenti per lo più circoscritti e per la maggior parte conclusi.
Nel caso di tutte le altre categorie di persone che patiscono le conseguenze di un reato commesso nei loro confronti, o del danno che ne deriva, il sistema di sostegno o d’attenzione alle loro esigenze è prevalentemente delegato alla loro auto-organizzazione. E si può forse dire che il sistema di sostegno alle vittime di reato consiste in azioni più o meno organizzate di self help, predisposte da chi ha vissuto la stessa esperienza direttamente, o da loro familiari. Questo sistema viene a costituire una sorta di mondo, differentemente distribuito sul territorio nazionale ed altamente eterogeneo per strutture impiegate, obiettivi e, naturalmente, modalità organizzative. Si tratta inoltre – anche a ragione di questi elementi di disomogeneità – di esperienze assai poco integrate: basti pensare che le tre principali associazioni di vittime della strada attualmente operanti in Italia sono molto attive nel mainstreaming sui temi della sicurezza stradale (campagne di sensibilizzazione e prevenzione, assistenza legale e psicologica alle vittime ed organizzazione di gruppi di supporto di tipo self help) ma faticano nel trovare un coordinamento interno, che permetta loro di aggregare le voci delle altre associazioni rappresentanti le varie subcategorie categorie di vittime della strada (ciclisti, motociclisti, ecc.). In ordine al profilo degli operatori, nell’ambito di tutte queste realtà, il supporto alla vittima è prestato prevalentemente da personale volontario, che ha partecipato a training mirati.
Un siffatto sistema di attenzione alle esigenze delle persone vittime di reato articola comunque una molteplicità di strumenti e competenze di intervento. Anche quando declinati in modo non omogeneo – ad esempio rispetto alle diverse categorie di soggetti vittimizzati – i servizi specializzati offrono un’ampia varietà di interventi di sostegno che spaziano dall’ospitalità in luoghi protetti a percorsi individuali e personalizzati di sostegno e reinserimento socio-lavorativo, dall’attivazione di gruppi di auto-mutuo-aiuto alla consulenza legale, dall’assistenza psicologica alla compensazione economica (soprattutto per le vittime del racket e dell’usura). Il tutto sempre insieme al mainstreaming sui temi della sicurezza, della violenza, dei diritti ed unitamente alle campagne di sensibilizzazione e prevenzione[7].
Nella gran parte dei casi le associazioni per le vittime tendono ad operare in una situazione di semi isolamento. Isolamento nel senso di distanza sia “verticale” (distanza dallo Stato che amministra la Giustizia) sia “orizzontale”, cioè distanza da tutti gli altri attori che a livello territoriale potrebbero essere candidati alla condivisione della responsabilità nei confronti della vittima e dunque della sua presa in carico. Ma distanza anche da chi lavora con il reo. Nel novero estremamente articolato di servizi con i quali sono in contatto i centri antiviolenza – che forse rappresentano l’esempio più avanzato in tema di servizi integrati per le vittime – manca, quasi sempre, il riferimento a qualsiasi agenzia che abbia in carico il reo in primis, dunque, i centri di mediazione.
Tuttavia esistono importanti esperienze che indicano come si stia intraprendendo un cammino diverso. Più di recente alcune associazioni che si occupano della protezione delle donne dalla violenza – si tratta di realtà sensibili e caratterizzate da uno spirito pionieristico – hanno avviato una serie di interventi rivolti anche agli autori di violenza, nell’ambito dei Centri specializzati nel trattamento di uomini violenti[8], gestiti da ONG con il sostegno delle istituzioni locali, nella convinzione che la metodologia d’intervento debba modificarsi includendo il complesso nodo degli autori, che vanno anch’essi aiutati a divenire consapevoli delle loro azioni assumendosene la responsabilità. Posto, dunque, che si riscontrano anche segnali incoraggianti, non si può tacere che a livello paese è ancora carente lo sviluppo di un approccio olistico alle persone che hanno patito danni, o versano in condizioni di sofferenza in conseguenza di un reato, e che dunque possono essere raggruppate sotto il termine vittime. Manca un disegno unitario sia rispetto al tema della vittima in generale o vittima a-specifica, come auspicato dalla stessa direttiva[9], sia rispetto all’articolazione degli interventi da mettere in campo per garantire alle vittime adeguata partecipazione al procedimento penale, informazione, assistenza e protezione. È mancato, quasi completamente, qualsiasi tentativo di dialogo tra chi può prendere in carico la vittima – incluse le associazioni delle vittime e/o i servizi per le vittima – e le esperienze di Restorative Justice (salvo forse l’eccezione del caso di Torino con la rete Dafne).
Quale futuro?
Scaduti, nel novembre del 2015, i termini per il recepimento della Direttiva, l’Italia ha adempiuto solo in parte – e in ritardo – emanando il decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212, (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 5 gennaio 2016) contenente una serie di modifiche al codice di procedura penale in attuazione della direttiva 29/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio. Il Decreto tocca aspetti principalmente legati alla partecipazione della vittima al procedimento, per cui vengono ampliati e proceduralizzati gli strumenti di informazione sulla (e di partecipazione alla) dinamica processuale, in modo che sia tutelato il diritto della persona offesa a ricevere, sin dal primo contatto con l’autorità giudiziaria, in una lingua a lei comprensibile, tutta una serie di informazioni relative all’andamento del procedimento, cosi come al diritto di ricevere comunicazioni della scarcerazione o dell’eventuale evasione del reo, per i delitti commessi con violenza alla persona (Art. 90-ter). Il decreto definisce poi la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa ma lasciando all’autorità giudiziaria una discrezionalità maggiore di quella auspicata dalla direttiva in fase di applicazione al caso concreto (parere della Corte Suprema di Cassazione del 2 febbraio 2016).
Per quel che riguarda i temi della giustizia riparativa, il decreto indica, tra le informazioni, alle quali, secondo il nuovo articolo 90 bis del codice di procedura penale, la persona offesa ha diritto, quella relativa alla: possibilità che il procedimento sia definito con remissione di querela, di cui all’articolo 152 del codice penale, ove possibile, o attraverso la mediazione (Nuovo Art. 90 bis – Lettera N). Ma nessun riferimento è fatto al monito che la direttiva lancia rispetto al rischio di vittimizzazione secondaria che la persona offesa corre quando, ad esempio, partecipa a percorsi di giustizia riparativa ancora troppo sbilanciati verso il reo, come a più riprese evidenziato.
Inoltre, tra le informazioni che la persona offesa ha il diritto di ricevere il decreto indica quelle relative alle strutture sanitarie presenti sul territorio, alle case famiglia, ai centri antiviolenza ed alle case rifugio (Nuovo Art. 90 bis – Lettera P). Questo è ciò che il Paese è riuscito a recepire del portato culturale della Direttiva: il sistema dei servizi e degli attori che da tempo sostengono la vittima rimane sullo sfondo e vi si allude – peraltro in modo parziale – solo per quanto concerne le informazioni da dare alla vittima; gli attori che hanno lavorato per la costruzione della cultura e delle pratiche di Restorative Justice non hanno trovato praticamente menzione. Del resto, la cosa sorprende assai poco considerando l’assenza, più volte richiamata, di un minimo dibattito su di un tema, quale quello della sofferenza delle vittime, di così ampio valore culturale e impatto sociale, anche dal punto di vista della costruzione di un condiviso senso di sicurezza sociale.
La storia che abbiamo raccontato testimonia il ritardo culturale di un Paese, e il decreto legislativo, il suo esito. Non si può non ribadire come le esperienze e competenze maturate in questi anni, da quanti hanno lavorato attorno ai temi della Giustizia Riparativa, non abbiano avuto la forza sufficiente per attrarre l’attenzione della società sulla vittima e le sue esigenze; non abbiano saputo riconsiderare il tema della sicurezza percepita anche come attenzione ai bisogni della vittima; non abbiano saputo porre l’attenzione alla vittima al centro delle priorità del welfare, della costruzione di relazioni comunitarie e della coesione sociale. E su questo, forse, i tanti che sostengono in Italia la cultura della Restorative Justice si stanno, giustamente, interrogando.
Note
[1] Progetto “YO.VI – Integrated Restorative Justice Models For Victims and Youth”, promosso dal Dipartimento per la Giustizia Minorile, con finanziamento della Commissione Europea-DG Affari Interni e realizzato a partire dal 2013 dall’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, in partnership con enti appartenenti ad otto paesi membri.
[2] Cfr. Direttiva UE 29/2012, art.12.
[3] Balestrieri, A. e Bracalenti, R. (2015), La sapienza di Eros. Un contributo psicoanalitico alla scoperta della giustizia riparativa, in Mannozzi, G. e Lodigiani G. A. (a cura di) Giustizia riparativa. Riscostruire legami, ricostruire persone. Il Mulino Saggi, pp. 165-176.
[4] I dati sono stati raccolti e analizzati nell’ambito del Progetto Monitoring in net, promosso dal Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità – Ufficio IV del Capo Dipartimento, Studi, ricerche ed attività internazionali ed affidato all’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, che ha comportato la strutturazione di una piattaforma informatica per il monitoraggio dei dati relativi alla mediazione penale minorile, con relativa costruzione di data -base.
[5] È bene sottolineare che la situazione italiana è simile a quella che si riscontra in altri 7 Paesi dell’Unione Europea (Bulgaria, Cipro, Grecia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovenia). Nei restanti 20, il sostegno alle vittime è offerto da organizzazioni (nella gran parte dei casi ONG che lavorano su base volontaria con dotazioni di risorse anche molto diverse da paese a paese) che si occupano di vittime a-specifiche.
[6] Queste strutture si avvalgono delle misure volte essenzialmente ad agevolare e rendere più celeri le procedure per l’accesso ai benefici economici previsti dalla legge in favore delle vittime dell’usura e del racket. Lo stesso Fondo di solidarietà per le vittime si prepone l’obiettivo di aggiungere all’azione di tutela della sicurezza personale svolta dall’associazionismo antiracket, una garanzia fondamentale per chi decida di opporsi al racket: sicurezza economica che testimonia una rinnovata cultura di attenzione e supporto.
[7] Più specificamente, i servizi attivati per le diverse categorie riguardano: 1) per le vittime della violenza di genere: ospitalità in luoghi protetti; attuazione di percorsi individuali e personalizzati di uscita dalla violenza e reinserimento socio-lavorativo; attivazione di gruppi di auto-aiuto per donne vittime di violenza e con problemi relazionali; realizzazione di laboratori e corsi; offerta di consulenza legale e sostegno terapeutico; attivazione di interventi di prevenzione e contrasto della violenza di genere; 2) servizi simili ma meno organici con una presa in carico più circoscritta nel tempo vengono dedicati alle vittime di tratta; 3) le associazioni delle vittime della strada, oltre che nell’assistenza legale e psicologica alle vittime e nell’organizzazione di gruppi di supporto di tipo self help, sono attive nel mainstreaming sui temi della sicurezza stradale e in campagne di sensibilizzazione e prevenzione; 4) per le vittime di racket ed usura è previsto anche l’accesso ai benefici economici previsti dalla legge.
[8] Vale in proposito ricordare il “Presidio criminologico territoriale” di Milano (C.I.M.P) che svolge un’attività clinico-trattamentale orientata alla prevenzione, rivolta a soggetti che hanno compiuto reati violenti a rischio di recidiva o che sono coinvolti in situazioni di conflittualità a rischio di condotte antisociali. Vengono effettuati interventi pluridisciplinari (criminologici, psicologici, socioeducativi, di educazione alla legalità) di valutazione, trattamento e monitoraggio dei comportamenti violenti e delle condotte antisociali, interagendo costantemente con le Forze dell’Ordine e con la Magistratura.
[9] La più volte citata direttiva non a caso suggerisce che venga esteso l’accesso per tutte le vittime di reato alla help-line armonizzata europea. Per il sostegno alle vittime sono state predisposte nell’Unione Europea le linee armonizzate di assistenza telefonica al numero 116. I servizi sono forniti da organizzazioni pubbliche o private selezionate localmente da ogni Stato membro. In questo contesto, il numero 116 006 serve a fornire assistenza alle vittime di reati. Lo Stato membro può anche chiedere la predisposizione della linea 116 016 per fornire specifiche informazioni e aiuto alle vittime della violenza di genere http://ec.europa.eu/digital-agenda/en/about-116-helpline.